“Mi
hanno chiamato folle, ma non è ancora chiaro se la follia sia il grado più
elevato dell'intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto
ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di
esaltazione della mente a spese dell'intelletto in generale.”
Edgard Allan Poe, "Eleonora", 1841
Aldolf ha 26 anni quando inizia a
mostrare attenzioni nei confronti delle minorenni prima, dei bambini poi.
Molesta una quattordicenne, poi una vicina di cinque anni. In entrambi i casi non
riesce ad andare al di là dello stadio voyeuristico, ma viene scoperto,
arrestato e mandato in carcere. Tornato in libertà, sarà colto
ancora una volta in flagrante, mentre sta insidiando una bambina di 3 anni.
Forse, proprio mentre sta per varcare la soglia della fantasia sessuale, per
entrare nella sfera della criminalità più efferata. Nella notte della
coscienza.
Nel 1895 lascia il carcere e entra nel Manicomio
Criminale di Waldau vicino a Berna, in Svizzera, dove rimarrà sino alla
morte, sopraggiunta per tumore allo stomaco il 6 novembre 1930. Nel momento nel quale varca la
soglia del manicomio si chiude però la vicenda giudiziaria, mentre inizia
l’avventura nei meandri della psiche che lo renderà - secondo molti storici
dell’arte - uno dei più grandi maestri del ‘900. Un nome che non poteva mancare
nella nostra contro-galleria, che attirò l'attenzione di Sigmund Freud, e del
vate del surrealismo André Breton. In trenta anni di attività, Wölfli realizzerà
1300 disegni e diversi quaderni di scritti, oltre ad una biografia gigantesca
di ben 25.000 pagine chiamata La leggenda
di sant'Adolfo. E verrà riscoperto solo nel 1945 dall'artista francese Jean
Dubuffet durante un viaggio in Svizzera. Sarà lui a inserire l'artista fra i
grandi della Art Brut e a fare in
modo che le sue opere venissero conosciute ed esposte. Con un biografo d’eccezione: il
dottor Walter Morgenthaler, uno psichiatra che dal 1907 decide di occuparsi di
lui, lo aiuta e gli fornisce il materiale e uno spazio tutto suo per lavorare.
Nel 1921 (35 anni dopo i trattati
di Lombroso) lo psichiatra scriverà addirittura una monografia sull'opera e la
vita di Wölfli, opera d'avanguardia nel settore psicopatologico e artistico,
tradotta recentemente in italiano, oggi considerata un classico della
psichiatria. Ma anche della critica d’arte.
Emerge così lo strano caso di Adolf Wölfli, contadino internato per schizofrenia dopo una doppia carcerazione per pedofilia, rivelatosi uno straordinario pittore e illustratore, torrenziale scrittore e indecifrabile compositore, a dispetto di una formazione scolastica minima. Un genio. Capace di scrivere in lingue misteriose, ma anche di usare parole in idiomi a lui del tutto sconosciuti, per dare vita a una cosmogonia dove le parole si mischiano alle immagini. Composizioni visivamente complesse e oniriche, che il buon Keith Haring avrebbe adorato.
Figlio di una lavandaia e di Jakob
Wölfli, intagliatore di pietra, alcolizzato cronico, spirito violento che
condusse una vita vissuta nell’ossessione delle prostitute e del crimine, che
nel 1870 abbandonò la famiglia (una moglie e sette figli), Adolf vive
un’infanzia solitaria e disperata.
Dopo peripezie e sofferenze, il
padre muore, e la famiglia, ridotta alla fame, va a vivere a Schangnau dove le
autorità municipali affidano Adolf e la madre a un contadino.
Nel 1873 i due vengono però
separati. Adolf lavora come bracciante, non frequenta la scuola e viene
maltrattato. A nove anni, a peggiorare un quadro già drammatico, viene a sapere
della morte della madre. E proprio in quegli anni inizia a manifestare la sua
deviazione/fragilità sessuale. E la fine, è l’inizio del suo riscatto.
Passano anni di abbrutimento in
ospedale, quando gradualmente Adolf acquista la coscienza di essere un vero
artista, tanto da esaltarsi fino a diventare megalomane e a prodursi in scontri
violenti con gli altri pazienti che lo lo prendono in giro. Si chiude in se stesso. E giunge
così, in una solitudine quasi monastica, a creare un suo personalissimo stile,
caratterizzato dalla ripetitività ossessiva della singola immagine. Rappresentazioni di uomini, di
animali (lumache, uccelli), edifici e paesaggi, ricami e greche con solfeggi e
righi musicali percorrono le sue opere formando una cornice ai suoi lavori.
Morgenthaler evidenzia 3 fasi nella sua malattia: la prima,
durata 5 anni, sin quando non comincia a disegnare, è caratterizzata da accessi
violenti, crisi impulsive, aggressività, manie di persecuzione, depressione,
allucinazioni audiovisive, sbalzi d’umore, distruzione degli oggetti nella sua
cella, pestaggi. Ma, curiosamente, frantumando le finestre, non fugge.
Nella seconda fase (1899-1917), detta “dei disegni e della
scrittura”, Wölfli, instancabilmente, crea. Ha ancora crisi, è collerico e
aggressivo, patisce allucinazioni e insonnia. Tuttavia, progressivamente,
l’esercizio artistico lo mitiga e lo placa: l’invenzione di mondi fantastici,
di viaggi interplanetari, di un Dio che coincide col padre e lo guida alla
scoperta del mondo, di un’infanzia felice e ricca di esperienze favolose, tra
le stelle, spendendo miliardi delle monete che ha inventato, lo distaccano
dalla coscienza della realtà.
Riempie i fogli in ogni spazio e prende ispirazione dalle
riviste che circolano in manicomio e dai pochi testi che può consultare. Conia
parole nuove, forgiandole sulla base dei termini stranieri che incontra nelle
sue letture, spesso mutandone senso e significati. Inverte e sostituisce le
consonanti di due parole analoghe, mostra grande sensibilità nei confronti del
ritmo: spesso passa, senza soluzione di continuità, dalla prosa alla poesia,
mostrando fedeltà al suono. Ha una scrittura non estranea al misticismo,
pretende Dio e talvolta crede d’essere Dio. Si firma Imperatore o Beato. La lingua è definita da Morgenthaler “magniloquente,
ridondante e pomposa”.
Nella terza e ultima fase, pur se ancora in isolamento, viene trasferito in una nuova camera cella, assieme a tutti i suoi scritti e ai suoi disegni. È il 1917. Diventa socievole, e mostra gentilezza nei confronti dei malati. “Le allucinazioni non sono svanite: interagisce con queste voci, litigandoci.
Mendica mozziconi di matita e fogli di carta dappertutto. Se non ha matite colorate, scrive la sua autobiografia fantastica; se invece manca la matita nera e sta scrivendo, si serve dei pastelli colorati ì. Sente di “dover fare”: la sua è una creatività che nasce dalla percezione di “necessità”. È applicazione e disciplina, senza godimento. Non sa mai cosa disegnerà prima d’aver intrapreso l’opera: Morgenthaler scrive che “pensa con la matita”. Non ha “ispirazioni”: sostiene di aver trovato quelle immagini nei suoi viaggi nell’Universo, per ordine di Dio”.
Le sue opere sono conservate al Museo
des Beaux-Arts di Berna e la sua
figura è oggi curata dalla Fondazione
Adolf Wölfli. Se Dio esiste, forse, lo avrà
perdonato.
Gran bel pezzo! Grazie!
RispondiEliminaFa pensare, almeno a livello visivo, all'opera di Mauro Gottardo
RispondiEliminapeccato che le immagini siano così sfocate....
RispondiEliminaquesti busti meriterebbero una riproduzione fotografica più accurata; o forse la sfocatura è voluta, magari per problemi di copyright?
Ho visto oggi 'Borderline' a Ravenna, e mi hanno colpito molto i 2 Wolfli esposti, per l'intensità cromatica insieme alla finezza e alla densità dei tratti delle matite, agli accostamenti, agli intrecci di forme e colori con fini simmetrie e asimmmetrie nello stesso tempo. Più immaginifico di Bosch.
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