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Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave
o in un caffè di Parigi
o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana
di vetro,
a respirare la mia aria mefitica.
Sylvia Plath
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Autoritratto a occhi chiusi, 1926 |
Arturo
Nathan nasce a Trieste a Piazza Oberdan nel 1891, deportato a Bergen Belsen per
le sue origini ebraiche, morirà di fame nel campo di concentramento di Oflag
V-B Biberach nel 1944.
Perché
qualcuno debba soffrire e morire perché appartiene a qualcosa, o crede in
qualcosa, non per quello che fa, ma per quello che è, non riuscirò mai a
comprenderlo. Ma questo, è un altro discorso.
Fragile
emotivamente, simbolista, rarefatto per stile espressivo, cosmopolita per
formazione e visione, Arturo Nathan è stato accostato a De Chirico e alla Metafisica, aree d’influenze che lo
avevano fortemente colpito nel suo soggiorno romano e al Realismo Magico di matrice europea. Nella sua vita ha prodotto poche opere - oggi ne sopravvivono
solo una ottantina - mentre molte sono andate disperse nel bombardamento a
Trieste, verso la fine della guerra, della casa e dello studio.
E’ un
artista ondivago, cerebrale, ostico, che predilige scene poco commerciali di
rovine e naufragi, che non ha prodotto, a mio parere, sempre opere di livello
assoluto. Correggo, non ha prodotto opere sempre di un livello espressivo e
formale pari ai suoi due autoritratti, di tristezza e intensità siderale: Autoritratto con gli occhi chiusi 1925,
e l’Asceta, 1927, sintesi di grande
pittura, delle letture filosofiche di tutta la vita e della frequentazione, in anni
precocissimi, con la psicoanalisi (entrò in analisi nel 1919) in un tessuto
sociale, a Trieste, che lo fanno essere più europeo che italiano.
Immagini, però, che, alla luce
della sua storia personale, chiamano a letture ancora più dense.
E’ figlio di un solido commerciante Italiano vissuto da giovane in India e in
Cina dal quale eredita la cittadinanza inglese. E’ alto quasi un metro e
novanta, magro, allampanato, vestito in maniera lontana dai canoni del tempo,
insomma, in città è considerato un tipo bizzarro. Allo scoppio della Prima
Guerra Mondiale si rifiuta di combattere e, sfruttando la sua doppia
cittadinanza, presta servizio militare come Obiettore
di Coscienza a Porstmouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra.
Quando
torna a casa appare depresso e privo di forze. Passa le giornate a letto, e alla
sorella Daisy non fa che dire: "La
vita xe una fogna".
A Trieste,
Edoardo Weiss, amico e seguace di Freud, il medico che introduce la
psicoanalisi in Italia, lo prende in cura e lo incoraggia a dedicarsi alla
pittura per combattere il suo disagio, un po’ come al suo concittadino
Zeno/Svevo il Dottor S. consiglia di scrivere un diario come strumento della
terapia. Forse lui stesso, come Zeno Cosini, il protagonista del romanzo, “…proviene da una famiglia ricca, vive nell'ozio e in un rapporto
conflittuale con il padre. Nell'amore, nei rapporti con familiari e amici prova
un costante senso di inadeguatezza, di "inettitudine", che interpreta
come sintomi di una malattia. In realtà, solo più tardi, scoprirà che non è lui
a essere malato, ma la società in cui vive..”
Weiss
studiò scrupolosamente il “disordine
dell'Io” di coloro che chiedevano un consulto, spesso reduci della Grande
Guerra e che, per potere incontrare i loro cari, dovevano prima essere
sottoposti ad esami clinici presso l'Ospedale psichiatrico perché spesso
sofferenti da “psicosi belliche” e nevrosi isteriche.
Il Caso
Nathan viene sottoposto allo stesso Freud in una lettera: “..in quel tempo stavo analizzando un giovane pittore sofferente di una
depressione non-melanconica che si esprimeva anche nei soggetti dei suoi
quadri: rovine e cadaveri animali… “ Il pittore risultava insomma un
ragazzo introverso, tranquillo, studioso rivolto più al "mondo
interno" e incapace di affrontare la praticità della vita. La sua
personalità si scontra con quella del padre, commerciante dedito ai suoi
affari, e con quella della madre, donna comprensiva e accogliente con la quale
ebbe un legame profondo destinato a cambiare continuamente.
Freud non
ebbe dubbi e rispose così: “Dalla
eccellente descrizione teorica del Suo paziente posso solo dedurre che può
trattarsi di una “depressione semplice” […] direi che si tratti di una semplice
fissazione materna.”
Ma
torniamo in presa diretta.
Arturo si
laurea in filosofia e da autodidatta, anche se frequenta i liberi corsi
dell’Accademia del Nudo, inizia a dipingere e a legarsi ad ambienti culturali
come quello de la rivista Trieste e poi
La Voce di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Conosce e frequenta Umberto Saba, Leonor Fini, Carlo Sbisà, pittore anche
da lui riscoprire, e lo stesso Italo Svevo.
Nel 1921
apre lo studio, e in pochi anni riesce a farsi apprezzare tanto da esporre alla
Biennale di Venezia già nel 1926. Vi
esporrà ancora nel 1928, nel 1930 e nel 1932.
L'opera “l'incendiario” viene acquistato per la
collezione del Museo d'arte Moderna di Mosca, e si trova oggi all'Hermitage di
San Pietroburgo. Espone poi alla Galleria Milano di Vittorio Barbaroux, e viene
notato da Giorgio de Chirico. Partecipa anche a due edizioni della Quadriennale di Roma.
Verso la fine degli anni Trenta, con l'emanazione delle leggi razziali, Nathan
come tanti ebrei italiani subiscono soprattutto uno choc culturale e avvertono
un forte senso di tradimento. Smette di dipingere a olio e si dedica solo a disegni
e a brevi composizioni poetiche.
In quanto
ebreo e inglese viene inviato al confino, nelle Marche, dove esegue solo
pastelli, preziosi e luminosissimi. Da lì sarà incarcerato a Carpi, forse c’è
ancora modo di salvarlo.
Racconta
la sorella Daisy: … avevamo
un amico nella polizia fascista che per salvarlo si era offerto di falsificare
i documenti, ma Arti (Arturo) si rifiutò, non lo trovava dignitoso. Nel 1944
venne deportato in Germania, prima nel campo di sterminio di Belsen, poi a
Biberach, dove è morto di fame il 25 novembre 1944 (ma anche per gli esiti di
una gangrena a una gamba, ferita mentre è ai lavori forzati n.d.R.).
Quando sono arrivati gli alleati, al primo cucchiaio di minestra, è
spirato. Mia madre, invece, era nascosta all'ospedale di Trieste, ma qualcuno
deve aver fatto la spia, così l'hanno presa e portata ad Auschwitz, dove è
morta. Io sono l'unica a essersi salvata.”
E'
incredibile quanto poco si sappia sulla morte delle persone, se non un luogo e
una data.
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L'esiliato, 1928 |