UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti 50 nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, progettisti, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


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martedì 21 dicembre 2010

DANIELE FONTANA, LA PENNA SATIRICA CHE MISE LA CORONA ALL'ITALIA.

Daniele Fontana (Milano, 1900 – sala comacina 1984) è stato un disegnatore, illustratore e pittore italiano. Strana commistione, non rara all’epoca, tra il fatto di essere un “artista serio”, ma anche una delle penne più irriverenti del panorama satirico italiano, nonché uno dei pionieri del cinema di animazione.
Ma non solo. Fu anche il padre, misconosciuto, della raffigurazione iconica della "donna turrita" dell’Italia, per anni simbolo ufficiale del Governo e dello Stato italiano.




Nato a Milano ha lavorato spesso a Roma, dividendosi tra l’attività di disegnatore satirico e illustratore e quella di pittore figurativo e di genere. In queste vesti ha partecipato all’Esposizione Nazionale di Milano (1923, 1925), all’Esposizione Sindacale (1928, 1932), diventando ospite fisso alla rassegna de La Permanente.
Grande caricaturista ha collaborato a Il Travaso delle idee e con il Bertoldo, realizzando tra il 1930 e il 1935 insieme a Petronio e Braghi i primi cortometraggi a cartoni animato pubblicitari (!) come Cuor Contento.
Colpito da paresi, trascorre un lungo periodo di sofferenza. . Pochi mesi dopo, quasi tutta la sua produzione, nella ristrutturazione dei locai, viene gettata via. Destino comune a molti, e che ha portato a perdere la maggior parte della produzione satirica e pubblicitaria italiana di quegli anni.

lunedì 20 dicembre 2010

ALBERT CEEN L'AUSTRALIANO DE ROMA


Ci sono artisti che rimangono impressi nella memoria collettiva, non solo per le loro capacità, ma perché "proprietà" di una galleria o di collezionisti di fama, perchè capaci di creare una Fondazione o di motivare figli o amici. 
Nulla di quello che ha segnato il destino di Albert Ceen (Roma 1903-Roma 1976) pittore e scultore (soprattutto del ferro), molto noto negli anni ’60 a Roma, dove era arrivato nel dopoguerra e oggi quasi dimenticato.
Era nato Achille Coen a Roma il 1903. Nel febbraio 1939 fuggì per l’Australia assieme a sua moglie Flavia Cabib e due figli, Guido ad Allan, per evitare le conseguenze delle leggi razziali fasciste.Appena arrivato a Melbourne rinnegò la nazionalità Italiana, e cambio nome da Achille Coen a Albert Ceen. Nel 1941 con l'inizio della guerra col Giappone, si arruolò nel Esercito Australiano come non combattente.

Fu uno degli animatori della “dolce vita”, amico di Guttuso, Maccari, Zavattini, Accatino, Fanco Nonnis, Franz Borghese, collaboratore di Federico Fellini per il quale realizzò numerosi story-board e set design.
Un nome che esprimeva un'epoca e che ora emerge dai suoi taccuini di appunti, o dalle rare opere che passano tra gallerie e collezionisti, che magari ne storpiano la pronuncia, e poi dicono "Però bravo, questo."  Un nome che, oggi, tra tanti, ci piaceva ricordare.
Il suo archivio è conservato presso The State Library of New South Wales, Sydney.  Perchè era australiano, e non americano come credevano tutti.
Qualcuno ci ha detto che quando sorrideva, sembrava un giorno migliore.



Albert Ceen, Festa sulla Cassia, anni '60 - opera preparatoria per incisione

BELA KADAR IL PRE-AVANGUARDISTA.



Ungherese (e oggi gloria nazionale), Bela inzia ad operare attraverso la tradizione della pittura murale, studiando e rielaborando tematiche popolari magiare. 
Parte quindi per Parigi e Berlino, che diventeranno in quegli anni le sue città di adozione, contaminandosi con i nuovi movimenti modernisti. 
Nel 1923 viene invitato da Herwath Walden, editore di Sturm ad esporre insieme al gruppo di Paul Klee, Wassily Kandinsy, Franz Marc, Marc Chagall. E’ in questa occasione che conosce Katerine Dreier, la donna della sua vita, che lo introduce negli ambienti di New York, città nella quale realizza due importanti personali, vendeo le sue opere al Brooklyn Museum of Art.


Dopo la guerra torna in Ungheria dove viene finalmente ha prova tangibile del successo e della popolarità.
Perché è importante? Perchè ha attraversato quasi tutte le avanguardie storiche, conosciuto i più grandi maestri, mantenendo uno stile libero, irridente, giocoso, che lo rende assolutamente unico nel suo genere. Sembra poco? E' tantissimo.



domenica 19 dicembre 2010

SIMONETTA BARDI. CHINA E PAROLE.



Simonetta Bardi, animatrice dei salotti letterari romani, futura moglie dello scrittore e sceneggiatore Massimo Franciosa (Il Gattopardo, Le 4 giornate di Napoli), negli anni '50, aveva un anima ribelle. Figlia di stampatori ed editori aveva deciso  di non seguire le orme paterne, ma di fare la scrittrice e la pittrice. E indecisa sul da farsi, iniziò a prendere chine e fogli bianchi, e a tracciare linee, volti, ritratti, figure.
Sono queste le sue opere più belle, realizzato tra il 1952 e il 1958, grazie ai consigli di due amici del padre che avevano preso la giovane e  bellissima ragazza come una presenza alla quale non poteva dirsi di no. Si tratta di Maccari e di Guttuso, che sembrano rivivere nelle sue opere di quegli anni, nell'ironia del primo, nel vigore del secondo.
La sua strada sarebbe stata chiara e forte. Vicina al realismo e alla visione della scuola romana.Tanto che nel 1958 verrà invitata alla Biennale di Venezia con critiche importanti, da Lorenza Trucchi a Valerio Mariani.
Poi, il matrimonio, il successo del marito, il salotto, il mondo del cinema, l'avrebbero man mano condotta a una pittura più leggera, più di "genere", più mondana, più facile, che ebbe estimatori, ma a che noi, interessa meno.
Una lettura condivisa dai suoi stessi amici, tanto che Maccari scrisse, su di lei una nota critica rivelatrice: "


Simonetta Bardi, scrittrice, poetessa, pittrice, Roma 1928-2007 ha pubblicato 24 titoli, collaborando con poesie e disegni a «La fiera letteraria», «il Popolo», «il Giornale d’Italia», “Il vantaggio», "Epoca". Come pittrice, Simonetta Bardi ha tenuto con successo numerose Personali, sia in Italia che all’estero, dal 1954 al 2002, Invitata alla Biennale di Venezia nel 1958, alla Quadriennale di Roma nel 1960.
Sue opere figurano in collezioni private e in Enti pubblici come il Museo di Roma, il Comune di Venezia, la Banca Comunale ed il Comune di Farnese (Viterbo) che ospita una mostra permanente. 

In una lettera a Simonetta, Corrado Govoni scrisse: (2 giugno 1958) 
(…) In un mio quaderno segreto vado trascrivendo da alcuni anni le più belle liriche di poeti nuovi che mi capita di leggere qua e là. Al posto d’onore devo aver certamente copiato anche la sua delicatissima poesia, “Signore, fa ch’io non veda” che rileggo con straordinario piacere ed interesse nella raccolta “Il cantiere e la luna” … Se non lo conosce già, io sarò ben lieto di inviarle in controcambio una copia del mio recente “Stradario”. Vorrei intanto riprodurre, con il suo ambito consenso e la sua necessaria autorizzazione …, per la grossa antologia “Splendore della poesia italiana” …, la su nominata lirica insieme a “La spighetta” e “Il pino e la malcontenta” (…)


ENRICO ACCATINO. L'ARTIGIANO DEL '900 CHE VIVEVA PER ESSERE ARTISTA.

"...Il tipo nella foto, in un autoritratto del '43, era mio padre: Enrico Accatino. Nel corso di un incontro con giovani artisti nel 2001 raccontò, per la prima volta, come fosse nata la sua passione per l’arte. Non una passione come tante, ma una “necessità” dalla quale non avrebbe potuto sottrarsi.
Era figlio di contadini piemontesi, che poi avrebbero fatto fortuna nel commercio a Genova, del tutto privi di riferimenti culturali e di letture. In quell’ambiente così semplice, senza libri, tra vignaioli e capomastri, aveva iniziato a ritrarre i musi delle bestie nella stalla e le colline nella nebbia, con mezzi di fortuna e nessun riferimento formale se non i santini della chiesa.
Così a 14 anni, nel 1934, quando seppe che ad Alessandria era arrivato il famoso pittore Carlo Carrà, inforcò la bicicletta per cercare di conoscerlo, pedalando come un forsennato sotto la pioggia per scendere verso la piana. Carrà seduto nel bar in piazza, vedendolo zuppo, e ascoltando i suoi ragionamenti strampalati, lo prese un po’ in giro davanti agli altri notabili del posto. E per toglierselo di torno, gli diede anche qualche spiccio. Che mio padre, girato l'angolo - ci raccontò - gettò lontano. Da quel momento, come disse, fu ancora più convinto di fare il pittore. E di vivere di arte. Ma anche di non voler essere come Carrà, il signore col panciotto, e come molti dei pittori che avrebbe conosciuto negli anni a venire. Perché fare gli artisti, anche di successo, non sempre coincide con l'esserlo."  (Alfredo Accatino)

Enrico Accatino, 1950. Alle spalle il quadro "Gli affogati"finalista al Premio Roma


Autoritratto, 1947
Il suo studio sui tetti di via Chiana prima, e poi di Via Agri divenne un luogo di lavoro, mai un atelier. Un’officina dove si lavorava per produrre idee e visioni, un luogo dove le mani avevano lo stesso rispetto della mente. E anche per questo ebbe rispetto sempre per i più umili tra i lavoratori, che lui chiamava sempre “maestro”. Per questo, dopo aver fatto il pittore per tanti anni, decise, come ci disse, di dare nuovo vigore a una forma artigianale quasi in disuso come l’arte tessile, divenendone in pochi anni il maggiore esponente e promotore taliano.
Cosa non facile far emergere dall'artigianato e da una produzione sterotipata le maestranze. Fece così studiare i titolari delle manifatture inserendo poi l'arte tessile nel processo dei Corsi di Aggiornamento promossi dal Ministero della Pubblica Istruzione. La sfida fu quella di "aprirli" all’arte contemporanea e alle forme espressive aniconiche, suggerendo agli amici artisti (Cagli, Capogrossi) di utilizzare questo nuovo mezzo, così antico. Così ricco di potenzialità e ancora così inesplorato. Un prodotto italiano per eccellenza.

In questo percorso attraversò l'Italia in lungo e in largo alla ricerca delle manifatture più tecnicamente preparate e motivate. A Penne, in Abruzzo, a Castelmassa in provincia di Rovigo, a Sassari, ad Asti, in Puglia, a dimostrazione della trasversalità di linguaggi, tecniche e competenze. 

Enrico Accatino pittore, scultore, progettista e teorico dell’educazione artistica, nasce a Genova il 22 agosto del 1920 da genitori piemontesi. Allievo di Casorati, a Torino, tra il ’43 e il ’46 attraversa anni tumultuosi, che lo porteranno a vivere l’esperienza militare a Manduria, ma anche a lavorare come semplice pescatore nelle Mattanze del tonno di Carloforte.
Diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, nel 1947 parte con Mino Guerrini per Parigi dove potrà scrollarsi la polvere del provinciale, e frequentare artisti come Severini, Giacometti, Laurens, Matisse, Pignon, Manessier. Andando letteralmente a ripercorrere i sentieri di Cezanne a Sainte-Victoire per rivedere il suo “punto di vista”.


Dal 1949 si trasferisce a Roma, che diventerà da quel momento la sua città di adozione. E dopo tanta fame (lavora addirittura come pittore operaio con Severini all'Eur) sino a fare la prima mostra, e a vincere il Premio Marzotto, all’epoca una sorta di Nobel Italiano delle arti.
Sino al 1957 la sua pittura si ispira ad una figurazione tratta da motivi sociali che distingue la sua opera dal realismo ideologico-politico imperante in Italia in questo dividendosi da Guttuso che, per primo, a Roma comprò alcuni suoi quadri. 
Quello che emerge dal suo linguaggio è un forte sentimento umano teso al riscatto del dolore e della miseria (cicli Pescatori, Mattanza, Madri) che ricerca il tema del lavoro, degli emigranti, delle case di tolleranza.
I primi quadri astratti, dalla forte caratterizzazione geometrica sostenuta dalle vibrazioni di colori controllati (grigi, bianchi, neri, bruni, rugginosi, azzurri), sono databili dalla seconda metà degli anni ’50.
Il motivo conduttore della sua produzione grafica, pittorica e tridimensionale sarà da allora la circolarità: cerchio, disco, ellisse, nelle loro plurime ed intersecate implicazioni. 



Attento studioso e teorico dell’arte, Accatino ha motivato in piú occasioni le sue scelte su categorie estetiche he fondamentali quali il colore, l’astrazione, la tridimensionalità.
Contemporaneamente all’attività artistica Enrico Accatino si è dedicato alla didattica delle arti visive. Dal 1960 al 1964 ha curato una nuova impostazione dell’insegnamento artistico in centinaia di trasmissioni televisive (RAI – Radio Televisione Italiana, Non è mai troppo tardi, Telescuola) con esperienze che egli stesso fece confluire nel primo programma di Educazione Artistica nella riforma della scuola media. Ha pubblicato numerosi e significativi testi di Educazione artistica e Storia dell’Arte, (forma colore segno tocco le 500.000 copie). Primo educatore a parlare apertamente di disabilità e di metodologie dedicate per bambini autistici, spastici, colpiti da sindrome di down o non vedenti.

Enrico Accatino nel 1966 nel primo corso organizzato in Italia di Arti Visive ed espressione artistica per docenti non vedenti.
 

Nel 1980 il Presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro gli ha conferito la medaglia d’oro quale “Benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte”. 
Colpito da una malattia debilitante, dopo la perdita improvvisa nel 2004 di sua moglie, la scrittrice e poetessa Ornella Angeloni Accatino, co-autrice di molte sue pubblicazioni, continuerà a operare sino agli ultimi mesi del 2006. Morirà a Roma il 16 luglio 2007.


A Parigi, nel 1947, con il pittore Silvio Loffredo (a sinistra)

composizione, arazzeria pennese, 1969

Enrico Accatino nel 2006 davanti al grande arazzo fatto tessere da Casa di Nepi in Nepal





Enrico Accatino, Casorati, italian master '900, kunst, san salvatore monferrato, premio marzotto, arazzi, tapisserie, incisione, arte astratta, infornale.



ANDRE DURENCEAU. DAL LIBERTY ALLA DESIGN ART.


"... per me l'arte è un mezzo. Non è un fine. E' una possibilità. 
E' un modo per esplorare linguaggi diversi, ma anche per porsi al servizio del bello e del nuovo. Per questo da artista e basta, sdopo l'accademia e le sperimentazioni fini a se stesse, sono divenuto un artista al servizio dell'industria. e del design. Nelle trame di una carta da parati. Nelle possibilità dei nuovi materiali plastici, negli sfondi stampati che vanno a cambiare l'identità di mille posti anonimi ho ritrovato la mia identità e la mia felicità..." 1949

Andre Durenceau (1904 -1957), francese, nel 1928 emigra negli Stati Uniti, dove rimarrà per tutta la vita. 
Già esponente del secondo liberty, tra simbolismo ed espressionismo,  dopo gli studi all'accademia del Nudo e una carriera mondana in patria, viene subito attratto dalla cultura industriale del quale diventerà uno dei massimi esponenti d'oltreoceano.
L'affermazione gli arriva con la pubblicazione di "Inspirations", raccolta in folio di suggestioni di design. E con un impegno, da artigiano dell'arte, che lo accompagnerà per tutta la vita.


lunedì 13 dicembre 2010

COPI. DEL FUMETTO E DEL TEATRO.

Spesso giocava sull’interpretazione da assegnare al nomignolo che si era dato, “Copi”, all’occasione spiegando che voleva significare “pollastrello”, e allora la sua identificazione con il pollo-stupido-eterno sconfitto-interlocutore della donna seduta, il fumetto pubblicato da "Linus" che lo rese celebre, diventa più comprensibile. Altre volte raccontava che “vuol dire uno che copia e io sono un plagiario, come tutti”.

 





Il suo vero nome era Raul Damonte Taborda, e ci teneva a ricordare che “D’Amonte è un nome italiano, un nome di Diano Marina (in provincia di Imperia), dove c’è ancora oggi un parrucchiere che si chiama D’Amonte e c’è della gente che mi assomiglia fisicamente. Il padre del padre di mio padre era italiano. Ma ho tre bisnonne indiane e una ebrea. Sono nato a Buenos Aires nel 1939. Però a 6 anni ero a Montevideo e poi a Parigi perché i miei erano esiliati politici”.
Una di queste antenate scriveva anche lei commedie di un certo successo che venivano rappresentate nella capitale negli anni Venti-Quaranta. Uno dei nonni era stato proprietario del più grande giornale di Baires, mentre il padre, dapprima anarchico e poi deputato, venne deposto da Perón.


Dopo la caduta di Frondizi, nel 1962, Copi tornerà nuovamente a Parigi, per stabilirvisi. Aveva 22 anni, tante idee per la testa e tanti fogli di carta da riempire di disegni e di testi teatrali.
La fortuna arriva quasi subito, nel ‘65, quando la rivista americana “Twenty”, gli compra un disegno che aveva schizzato al “Café Deux Magots”, e glielo pubblica. A 28 anni avrà il suo primo successo teatrale con La journée d’une rêveuse
Nel giugno del ‘67 anche gli italiani cominciano a conoscerlo grazie a “Linus”, e ad amare la sua improbabile donna seduta con un nasone da “guinness dei primati”, ed il nevrotico pollastro con il quale si perdeva in dialoghi da Teatro dell’Assurdo, intervallati da silenzi insoliti, pesanti e pieni di attese e/o minacce.
La donna (la società?) e il pollo (lo stesso Copi?) rappresentano gli sconfitti che, come tutti i perdenti, al di là dei pregiudizi morali e delle buone intenzioni che parlano di solidarietà e di comunanza di ideali, si odiano profondamente e cercano di farsi del male, di ferirsi, di aggredirsi con ferocia.

Copi faceva parte del gruppo “Tse” di artisti argentini emigrati a Parigi negli anni ‘60 e ‘70, ma più che a loro è a Wolinski, a Reiser, a Topor, che bisogna avvicinarlo, ed agli altrettanto feroci graffitisti del “Canard Enchainé”, di “Harakiri”, di “Charlie Hebdo”, mentre il suo teatro ha preso molto da Jonesco, Adamov e Beckett, soprattutto per l’incomunicabilità che lui, comunque, faceva risalire a Cecov perché “aveva introdotto sulla scena un tempo teatrale di silenzi”.

Tra i suoi primi scritti non bisogna dimenticare le “biografie” di Santa Genoveffa (1966) e di Evita Perón (creata insieme al gruppo “Tse” nel 1969, e dove lui stesso recitò nel ruolo travestito della protagonista), e poi L’homosexuel ou la difficulté de s’exprimer ("L'omosessuale, o: La difficoltà di esprimersi”, 1971), Les quatre jumelles (1973), Frigo, Les escalier du Sacré-Coeur; La femme assise.
Quest’ultima commedia, ovviamente ispirata dalla stessa “donna seduta” delle sue strisce, vive tra una sedia nella quale non riesce a star comoda per quanto è piccola, ed una vasca da bagno da dove gestisce la propria esistenza dialogando con l’immancabile pollo e, all’occasione, con lumache e topi (visto che “gli animali non tradiscono mai”), e con bambini e suorine uscite da chissà dove.

Aveva pubblicato anche dei libri. Il ballo delle checche è la sua opera più “allucinante”, mentre Il fantastico mondo dei gay è stato il suo ultimo albo a fumetti, scritto proprio mentre il sarcoma di Kàposi lo stava divorando.
Recitava volentieri nei suoi stessi spettacoli, travestendosi in maniera altamente improbabile come quando, nel ‘79, venne in Italia per recitare nel suo Loretta Strong, storia di una donna che vive su uno dei tre anelli di Saturno ed alla quale succede di tutto (o quasi!), a cominciare dal topo che partorisce da una lattuga e che all’inizio non riconosce, ma che poi si rassegna ad allevare con la speranza che diventi ingegnere e la possa così ripagare dei sacrifici fatti.
Aveva recitato anche nelle Serve di Genet, nel ruolo di Madame, sotto la regia di Missiroli.

Nel 1985 torna ancora in Italia, a Venezia, per presentare La nuit de Madame Lucienne, complicata riedizione del più banale cliché di commedia nella commedia che lui, ovviamente, risolve in maniera brillante, pirandelliana, con esplosioni di raptus erotici esistenziali che vivacizzano un intreccio abbastanza complicato e surreale, dove, come sempre, le donne sono tutte castratrici, e gli uomini tutti travestiti.

La sua ultima opera è Una visita inopportuna, presentata postuma al “Théâtre de la Colline” di Parigi, dal suo regista preferito e amico carissimo, Jorge Lavelli.
La visita inopportuna, è quella dell’aids che, insalutato ospite, si presenta a sconvolgere la vita di un vecchio attore di teatro nelle vesti di una sua appassionata ammiratrice, la cantante lirica italiana Regina Morti.
Cyrille, questo è il nome dell’attore, è finanziariamente disastrato ma mantiene intatta la sua dignità e le sue pretese aristocratiche nei rapporti che è costretto a mantenere con un amico, Hubert, che preferirebbe non vedere, e poi con Madame Bongo, un’infermiera drogata, erotomane e con manie omicide che continuamente s’intromette nella sua vita privata, lo tiranneggia e lo offende: “Spero che oggi venga la sua domestica. Non mi va più di dover pulire la camera dopo i suoi picnic mondani. Lei è la Sarah Bernhardt della mutua!”. E Cyrille: “Sa che lei parla come un omosessuale?”. L’infermiera risponde: “Mi domando se non sarebbe stato meglio nascere omosessuale. Lei se l’è cavata benissimo nella vita”.
Hubert gli ha già preparato un monumento al cimitero del Père Lachaise, di fronte alla tomba di Oscar Wilde e subito dopo quella di Henri de Montherlant, prima ancora di vederlo defunto, tanta è l’ammirazione che prova per il suo “maestro” e per il quale spende qualsiasi somma di denaro.
Ma il più grande dolore di Cyrille-Copi non è tanto di doversene andare, quanto di non fare in tempo a recitare il Riccardo III di Shakespeare, al quale teneva in modo particolare. La morte, infatti, vince sempre ed impone la sua volontà. La stessa morte che una volta Copi aveva disegnato nelle vesti di ballerina delle Folies-Bergère con la didascalia: “La star c’est moi!” e che oggi ripropone come cantante lirica.


Nell’ottobre precedente, a Parigi, aveva esposto una cinquantina dei suoi ultimi disegni per “Le Nouvel Observateur”, e li aveva venduti tutti in poche ore.
Tre giorni prima di morire aveva ricevuto il “Gran Premio di Letteratura Drammatica 1987 della Città di Parigi”. Non era andato a ritirarlo perché ormai immobilizzato a letto, ma aveva gradito molto questo riconoscimento della sua attività teatrale. Non aveva potuto più ripetere il gesto, quasi di sfida beffarda, di pochi mesi prima, quando era andato in ambulanza a festeggiare il suo compleanno con gli amici, e in ambulanza era tornato nell’ospedale.
Massino Consoli, da Killer Aids, Kaos ed., Milano 1993




domenica 12 dicembre 2010

LEON BAKST - LA PERI. SINTESI PERFETTA.


Leon Bakst, bozzetto per la Peri (1917) opera di Dukas andata in scena nel 1911. La ballerina era Natalia Vladimirovna Trohuanova (Kiev 1885).
Il teatro e la danza hanno anche loro un Michelangelo da citare: Léon Bakst (pseudonimo di Lev Schmule Rosenberg) (San Pietroburgo, 10 maggio 1866 – Parigi, 28 dicembre 1924) è stato un pittore, scenografo e costumista russo. Probabilmente il più famoso e apprezzato a livello mondiale.
E questa immagine, rappresenta uno dei più straordinari, noti, disegni della danza e dell'art nouveau. Realizzato per il Balletto La Peri nel 1911, per la danzatrice Natasha Trouhanova, il cui nome appare, declinato, sul foglio in alto a destra. Il disegno, poi ripreso su base litografica venne poi più volte ripreso da Bakst, divenendo il suo disegno simbolo, tanto che ne esistono varianti sin al 1919.

ENRICO SACCHETTI, IL SUPER ARTISTA DEL PIANETA PROTON