UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti 50 nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, progettisti, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


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giovedì 2 settembre 2010

ANGESE, L'UMORISTA CHE SMISE DI RIDERE. MA CHE FORSE ANCORA LO FA.

Vi ricordate delle terribili vignette de "Il Male", con un Craxi pantagruelico e maialesco e un Martelli rappresentato come un bambino capriccioso? Quando Craxi era Craxi e Martelli il suo Delfino? 
Ebbene, erano opera di un piccolo grande genio satirico che la vita avrebbe dissipato in tutti i sensi. Sergio Angeletti, in arte Angese (Roma 1952 - Perugia 2008). Una delle penne più graffianti del secondo dopoguerra, morto prematuramente dalle parti di Alcatraz, la comunità umbra dove si era ritirato. 
Per ricordarlo degnamente, però, abbiamo pensato di "rubare" la commemorazione che di lui ha scritto Jacopo Fo. Che, siamo certi, ci scuserà per il furto.

Una delle prime vignette pubblicate 
da Angese alla fine del '74  sul quotidiano Paese Sera.
Jacopo Fo: E’ passato un anno dalla morte di Sergio Angese. L’ho conosciuto nel 1977, alla fine dell’anno, nella redazione del settimanale satirico “Il Male”. Sergio era un giovane con i capelli corti e ben vestito. Portava la camicia e la giacca, aveva due figli piccoli, Alessio e Irene, una moglie, Paola, e un lavoro fisso come giornalista vignettaro a Paese Sera che era un quotidiano romano filocomunista (si mormorava che gli arrivasse perfino qualche soldo dall’Unione Sovietica. Ma non so se fosse vero). La prima impressione che mi fece fu quella di un ragazzo con la faccia grassoccia che non c’entrava niente con noi che eravamo una banda di fumatori di canapa vestiti come capitava.Ci misi un po’ a entrare in simpatia. La mia stima verso di lui salì enormemente in due occasioni. La prima fu quando disegnò una vignetta che trovo pazzesca. Era appena scoppiato il caso del comune di Bologna che offriva case popolari anche ai conviventi gay. Lui disegnò un impiegato comunale, seduto di fronte a una scrivania, con davanti una coda di coppiette. L’unico non in coppia è un tipo che è il primo della fila e che dice: “A me un monolocale, io mi masturbo.” Geniale. Un totale rovesciamento quantico del punto di vista. L’equivalente di un tuffo carpiato triplo con capriola a rovescio, avvitamento e urlo finale.
La seconda occasione fu successiva a una rissa. Al Male succedeva che un redattore decidesse di andare a sfondare la porta di Vincino, quando era lui il direttore, cercando di picchiarlo. Oppure che un giornalista arrivato per intervistarci ricevesse un pugno in faccia giusto sull’ingresso. Un caos aumentò via via che le droghe pesanti contaminavano una parte dei redattori. Io e Sergio facevamo parte dell’ala salutista. Fumavamo solo erba. E cercavamo di mantenere in vita il giornale.
Io ero molto mingherlino e nei momenti di crisi andavo al lavoro con un martello da carpentiere sotto la giacca. Ma non lo usai mai perché il mio fisico rachitico era controbilanciato dal fatto che avevo militato nei gruppi vicini alle bande armate. In realtà avevo abbandonato Toni Negri prima che si iniziasse a sparare ma i miei colleghi erano comunque convinti che mi fossi macchiato di crimini violenti e mi rispettavano. A quei tempi tutti si dichiaravano innocenti e nessuno ci credeva.
Angese invece era grande e grosso e c’aveva i manoni. Quindi veniva rispettato.
Un giorno Piero Lo Sardo, quello che aveva cercato di picchiare Vincino e aveva tirato un pugno al giornalista, Sparagna e qualche altro debosciato, si misero d’accordo con il Partito Socialista di Craxi (cioè il Diavolo), intascarono 15 milioni di lire e realizzarono, senza dire niente a nessuno, un giornale per la campagna elettorale del PSI.
Quando lo sapemmo il giornale si incendiò. Alla fine passò una linea alla vaselina e non vennero espulsi. Ancora penso che sia stato il primo passo verso la morte del giornale. Comunque negli scontri feroci a un certo punto Angese diede un pugno a Vincenzo Sparagna. Il giorno dopo Sparagna si presentò in redazione mostrando la lastra della sua mandibola fratturata. Angese prende in mano la lastra, la guarda, la gira e dice: “Questa è una mandibola destra io il pugno te l’ho dato sulla sinistra.” E io iniziai a stimare veramente Angese.
Ai tempi ero già diventato pacifista. Ma un conto è essere pacifisti, un conto è essere non violenti. La differenza è che il non violento non usa la violenza neanche se aggredito. Il pacifista cerca di evitare in ogni modo la violenza, ma se lo aggredisci, se può, ti maciulla. E vendersi ai socialisti era come attaccarti alla gola un coltello.
Mentre il giornale lentamente affondava io presi la strada di Santa Cristina, vicino a Perugia, lui diventò condirettore insieme a Vincino e cercarono di far risalire la rivista riuscendo a procrastinarne la sopravvivenza fino al 1982.
Io inviavo i miei disegni dall’Umbria e arrivavo a Roma una volta al mese.
Fu nel 1982 che iniziarono le lezioni alla Libera Università di Alcatraz, e tra i vari corsi c’era quello di fumetto. Sergio era tra gli insegnanti. Gli piacque molto il posto e il clima che si era creato e dopo qualche tempo decise di trasferirsi a Alcatraz prendendo in affitto da me una  casetta di pietra, due stanze con un bagno, persa nei boschi. Un posto da favola.
Così iniziammo a vivere a un chilometro di distanza. D’estate corteggiavamo le ragazze (e lui aveva più successo di me perché era più macio) d’inverno passavamo ore a discutere del mondo, della vita e di tutto il resto. Sergio collaborava allora a Satirycon, inserto satirico di Repubblica diretto da Forattini che ai tempi era uno di sinistra, e collaborava con l’Espresso. Insieme partecipavamo ai vari tentativi di Vincino di far rinascere il Male: L’Ottovolante, Il Clandestino, Zut… L’unico grande problema era che dovevamo alzarci prima del’alba e andare a consegnare la busta coi disegni al pulman che alle 5,45 passava a casa del Diavolo. Poi a Roma un redattore doveva andare alla fermata del pullman e farsi consegnare la busta e non sempre ci riusciva. Poi Angese mi disse che c’era una roba chiamata fax, una diavoleria moderna appena arrivata sul mercato. Poi ne comprò una pagandola 7 milioni e mezzo di lire, una cifra spaventosa a quei tempi.
Tu infilavi il disegno nel fax e questo magicamente appariva in un altro fax anche a migliaia di chilometri di distanza. Grandioso! Niente più pullman. Fu uno dei vari motivi per cui lo amai.
Sergio Angese, che io chiamavo generalmente Angese piaceva alle donne in modo sensazionale. Quello che a lui piaceva era la trama delle storie d’amore. Il modo in cui venivano fuori. Era un mistico dell’intreccio della vita, della trama della storia.
Era un guerriero. Viveva in modo laico una certa mistica samurai. Non era però un militarista o un violento. Era una persona pacifica che però in alcuni frangenti reputava suo dovere morale usare le mani. Lo faceva in modo molto raro e molto scenografico. In effetti mi risulta che, al di là delle risse giovanili, lui abbia colpito qualcuno solo 3 volte....
Era cresciuto nel ristorante di famiglia, a Roma, un’osteria piena di personaggi favolosi, attorniato da donne (come me). Il suo modo di essere macio non era basato sull’aggressività ma sulla capacità di inventare storie, situazioni che avevano sempre un retrogusto di sfida...
Chiaro che quando io comprai 5 cavalli agricoli e insieme ci appassionammo alla doma, il quadrupede divenne per lui uno strumento di seduzione onirica formidabile.
...con i direttori dei giornali questa schiettezza irridente non aveva successo. Infatti Angese pagò la sua onestà politica, il suo amore per la libertà di espressione e il piacere di prendere per il culo faccia a faccia direttori, condirettori e grandi firme, con l’ostracismo da tutti i giornali italiani. Lui fu il tipo che quando lavorava per la Nazione, al proprietario che gli proponeva l’idea per una vignetta, si era concesso il lusso di rispondere: “Questa idea è veramente priva di senso!” con un tono che gli costò l’allontanamento dal giornale.
Ma se Angese faceva inviperire i giornalisti potenti, incollati alle loro sedie di notizie addomesticate, otteneva un risultato diametralmente opposto con le donne.
E quando aveva un cavallo sotto il culo Sergio dava il massimo.
Intendiamoci, né io ne Sergio avevamo mai visto un cavallo. Imparare fu un vero disastro. Prendemmo calci e morsi e volammo per terra un numero incredibile di volte. Ma dopo sei mesi di massacro fisico e dita dei piedi fratturate dal pestone di un animale da 6 quintali, eravamo capaci di stare in sella. Avevamo uno stile un po’ gaucio, frutto di un mix di lezioni impartite da una mia fidanzata danese, un’insegnate lesbica tedesca che voleva castrare tutti (cavalli e non), un cavallaro sardo e un paio di umbri. Scuola internazionale.
Comunque stavamo in sella. Passavamo ogni giorno ore a lavorare coi cavalli, allenarli, pulirli, medicarli. C’era una simbiosi incredibile. Io facevo ridere i bambini delle gite scolastiche non riuscendo a salire sulla mia cavalla che era più larga che alta. Angese si era comprato un mezzo sangue bastardo che era molto bello, Astante, e gli aveva insegnato perfino la retromarcia, a impennare a comando, a muoversi come danzasse. Io andavo sempre al passo perché anche il trotto per me è troppo veloce. Questo non entusiasmava alcuni ospiti di Alcatraz che volevano provare il brivido selvaggio, allora li portavo giù dalle pietraie in mezzo ai rovi. Percorsi da scalatori che solo i nostri cavalli da lavoro erano capaci di compiere. Gli ospiti uscivano coperti di sangue (il loro sangue) e felici.
Angese prediligeva le escursioni di un giorno intero, con molti pezzi di salita fatti a piedi per non stancare la bestia, e i sentieri erbosi in piano al galoppo sfrenato.
Prendi una giornalista romana, una manager milanese, un’avvocatessa veneziana, falle provare a stare in sella un paio d’ore, falle sentire che è sopra un animale vivo, un vulcano genetico a quattro zampe e dopo proponile di andare a cavallo di notte, solo tu e lei. Tu e lei sopra un cavallo solo. Il cavallo è senza sella e siete nudi. E il cavallo cammina in salita così che le sue natiche premono contro le tue.
Le ragazze andavano giù di testa. Era il racconto che faceva Angese a rapirle, a dischiudere per loro le porte di un sogno impossibile nelle loro vite. E questo quando i direttori dei giornali vedevano Angese, lo intuivano. E lo licenziavano.
Angese adorava la pittura, la scultura che era stato il suo primo mestiere, la musica classica (Mozart) e Zingarò. Zingarò era arrivato a Roma con il suo circo equestre e i suoi suonatori indiani. Uno spettacolo pazzesco nel quale riusciva a far galoppare un cavallo da fermo che è la cosa più difficile da insegnare a un cavallo. La scena che aveva colpito di più Angese era quella nella quale un inserviente costruisce un muro triangolare di bicchieri uno sopra l’altro, poi versa lo champagne in modo che coli da un bicchiere all’altro riempiendoli tutti.
Poi arriva Zigarò sopra un enorme bestione nero che salta sul muro di bicchieri distruggendoli e poi s’imbizzarrisce e salta la transenna arrivando addosso agli spettatori con le zampe davanti, Zingarò salta giù dal cavallo prende una donna del pubblico tra le braccia e la bacia appassionatamente.
...Dopo qualche anno Sergio si comprò una casetta minuscola, stanza con soppalco, vicino a Alcatraz. Dopo qualche tempo la rivendette e ne comprò una diroccata, che restaurò con amore riempiendola di dettagli ricercati. Continuò a vivere nella casa di Carpiano, a 4 chilometri da Alcatraz ma comprò una terza casa e la rivendette restaurata, poi un’altra ancora a Massa Martana, dove abitò negli ultimi mesi di vita. Aveva intenzione di restaurare un barcone. Vivere sei mesi all’anno sull’acqua e sei sulla terra ferma.
Quando Angese aveva una ventina d’anni andò a giocare al casinò: amava il poker ma non era un giocatore d’azzardo. Andò al casinò con 100 mila lire, e tornò a casa con 43 milioni. Si comprò una macchina sportiva e campò per un anno da gran signore. Regalò anche una 500 Fiat a suo cugino che l’aveva accompagnato nella scorreria. Poi non giocò più. Diceva che sono cose che si possono fare una volta sola nella vita.
Una logica eroica. Mistica oserei dire anche se Sergio non aveva niente di mistico e prendeva sempre in giro quelli fissati con le filosofie orientali e i guru. Era roba che non gli interessava.Guardava con ironia anche me e Andrea Pazienza che ci eravamo fatti prendere dal kendo di Mario Bottoni, grande maestro milanese che d’estate teneva corsi a Alcatraz.
La sua mistica era più strutturale, narrativa.
Cercò di esprimerla comicamente nel Grande Dito.
Il Grande Dito in raltà era Nero. Nero era il cane di Alcatraz. Un animale umanamente superiore. Era un bastardo multiplo molto grosso. Una specie di pastore tedesco con dentro qualche linea di Labrador, e la taglia di un pastore maremmano. Era nero con una macchia bianca sulla frote e un’altra più grande sul petto. E anche lui adorava i cavalli. E ti guardava con aria intelligente e un po’ melanconica.
Era arrivato per i fatti suoi a Alcatraz e siccome faceva paura l’avevamo caricato in macchina e portato a 20 chilometri. Dopo 4 giorni ce lo ritroviamo davanti, sporco da panico.
Ma a quel punto il nostro codice d’onore ci impedì di ricacciarlo. Se proprio aveva deciso che voleva abitare con noi come potevamo dirgli di no?
Nero era un genio dell’ospitalità. Quando Alcatraz era aperta andava a ricevere gli ospiti e li scortava alla reception. Quando Alcatraz era chiusa non faceva scendere nessuno dall’auto. Abbaiava fino a che qualcuno diceva: “OK, Nero, smettila.”
Una volta il camionista che aveva riempito i bomboloni del gas stava venendo a casa mia per farmi firmare la ricevuta. Nero gli va incontro abbaiando. Lui astutamente gli da un calcio in faccia. Io nel frattempo ero uscito per fermare il cane, urlando perché temevo se lo mangiasse. Nel tempo di fare venti metri per prenderlo per il collare aveva sbranato i vestiti del camionista. Non gli aveva fatto un solo graffio ma lo aveva lasciato in mutande.
Non è facile per un cane controllare i propri denti con tanta precisione. Ma lui sapeva che se gli avesse fatto un solo graffio sarebbe stato abbattuto. Non potevamo tollerare cani mordaci. D’altra parte non poteva non reagire a un calcio in faccia. Io dovetti ripagare il guardaroba al camionista, ma dovetti convenire con Nero che aveva ragione lui.
Ma la dote più strabiliante di Nero era il suo stile nell’accompagnare le escursioni a cavallo e il modo in cui ci aiutava, spontaneamente, a radunare i cavalli dispersi sui pascoli. Probabilmente era stato il cane di qualche pastore. Comunque Angese aveva passato ore con Astante (il suo cavallo) e con Nero che gli trotterellava davanti annusandogli la strada, e si era convinto che quel cane nascondesse una saggezza misteriosa nobilitata da una particolare eleganza dinoccolata. Quindi lo aveva trasformato, trasfigurandolo, in una specie di Maestro mitico che guardava il mondo con occhi comici facendo capriole che gli permettevano di vedere il mondo da un punto di vista impossibile.
Il Grande Dito, che aveva proprio la forma di un grande dito indice indicatore, girava per i disegni di Angese e si soffermava a riflettere sul valore delle singole vocali pronunciate. Raccontarlo a parole è impossibile, tocca leggerlo, guardarlo. E’ pieno di donne seducenti.
Il Grande Dito usciva su Linus, la rivista della Rizzoli, ai tempi della direzione di Fulvia Serra, donna molto amabile che tollerava le interperanze di Sergio come una mamma. Quando lui arrivava nella redazione milanese credo che fosse un’esperienza traumatica per tutti. Diceva cose che non si dovrebbero mai dire a una redattrice di un giornale blandamente di sinistra. Soprattutto se lavora in una redazione dove sono tutte donne e tutte femministe.
Ad esempio non bisogna dire davanti a tutta la redazione che la direttrice è sotto ricatto perché possiedi una sua foto in costume da bagno.
Comunque Fulvia fu molto buona con noi. Mi lasciava scrivere degli articoli che poi doveva pagare col sangue (mai parlare male di Agnelli alla Rizzoli) e ci concesse perfino di realizzare un giornalino Awaj. Il titolo era formato dalle iniziali di Angese, Vincino, Andrea Pazienza e Jacopo.
Il formato era piccolo, orizzontale, come i fumettini degli anni 60. A colori. Sergio era riuscito a convincere un suo amico fraterno a scambiare viaggi all’estero sontuosi in cambio di un fumetto che dopo la pubblicazione su Avaj, poteva essere usata per la pubblicità di un’agenzia turistica. Ogni disegnatore a turno si faceva una settimana gratis da qualche parte e poi tornava con due puntate di fumetti nei quali raccontava il suo viaggio. Linus non pagava molto, meno di duecento mila lire a tavola, ma i soldi che ci dava per ogni pagina, con l’aggiunta del viaggio diventavano un bel prendere.
Ma al quarto numero Vincino ha la buona idea di raccontare la storia di quando Gianni Agnelli parte in pompa magna per la Russia con duecentomila alpini. Alle armi! Alle armi. Dopo una settimana Agnelli ritorna in aereo. I duecentomila alpini invece restano là. Per sempre. La direzione di Linus ci fa sapere che questa storia non poteva uscire. Alla fine esce ma senza parole. Così nasce su Avaj il primo fumetto italiano con i ballon del testo vuoti.
E’ l’ultimo lavoro che riusciamo a fare con la Grande Editoria. Avaj chiuderà poco dopo e da allora Sergio si trova fuori dal mondo ufficiale dei fumetti. E’ un rompicoglioni, uno che se non lo paghi va dall’avvocato e vince la causa, uno che non porta rispetto per nessuno e se gli censuri una vignetta ti manda al Diavolo.
Inizia per Sergio un periodo durissimo con pochi colpi di fortuna che lo tengono a galla ma lo costringono a una vita molto spartana. Ma lui resiste sulla sua strada.

Angese era un autore completo. Dopo il Male, con Enzo Sferra, amico e sodale nel settimanale, si mette a realizzare brevi cartoni animati di satira per la Rai. Poi ha grande successo su Repubblica, quindi su Tango, supplemento a fumetti dell’Unità. E’ lui a convincere Staino a farmi scrivere articoli al veleno. Poi continua il successo su Cuore, versione di Tango più digeribile per la direzione del Partito Comunista e diretta non più dall’inflessibile Staino ma dal più morbido Michele Serra (che non credo sia parente di Fulvia Serra direttrice di Linus). Dopo la chiusura di Avaj io mi metto a recitare. Sergio cerca con caparbietà un editore che editi un altro giornale di satira. Ma è dura. I tempi sono cambiati...

Da lì in poi per Angese lavorare diventa veramente impossibile. Riesce a pubblicare un paio di libri, a prendere qualche lavoro saltuario ma non si arrende. Alla fine viene ripreso alla Nazione con un compenso a tavola di una cinquantina di euro. Ma almeno lavora tutti i giorni. Intanto è scoppiata internet e lui inizia a pubblicare le sue vignette su Cacao e poi sul suo sito, prima Pesce Fresco News, poi Angese.it.
Gira qualche editore che vorrebbe lanciare un giornale rivoluzionario. Ma poi scompare.
Angese prova la via della pubblicità. Riesce a piazzare una campagna per la Fiat, si inventa un personaggio di rivenditore mitico, il signor Safi protagonista di avventure surreali e, con tanto di sagoma disegnata e ritagliata, a grandezza d’uomo, che sorride all’ingresso del salone. Un successo. La gente si diverte. Inizia una nuova primavera, il suo blog va bene e c’è di nuovo occasione di lavorare. La rivoluzione energetica è alle porte e insieme ci mettiamo a progettare Ecotecno di cui esce un meraviglioso numero uno, supplemento di Modus Vivendi dei Verdi, in gran parte illustrato da Sergio con grandi immagini a doppia pagina. L’idea è quella di realizzare un giornale tecnologico illustrato come un giornale per bambini. Poi succede quel che succede. Ma è certo che se non fosse morto sarebbe riuscito a riaffermarsi sulla scena. Semplicemente perché non era capace di fermarsi e perché era un grande narratore e un grande disegnatore.





RAFFAELE PONTECORVO. SURREALISTA TORINESE.


In Italia, diceva Buzzati "...ci sono stati pochi surrealisti, forse perché ci sono pochi sognatori...."

Arrivato quasi trentenne alla pittura, Raffaele Pontecorvo (Roma 1913 - Torino 1983) seppe affermare subito i caratteri di una personalità e di un temperamento estroso ed esente da conformismi, che lo fece diventare molto noto a Torino. Fequentatore dei salotti bene, ma anche delle "piole" (le osterie lungo la Dora), amico di Gustavo Rol, che lo volle vicino in numerosi suoi esperimenti psichici.
Janus lo ricorda come: “Gran signore, gentiluomo di stampo un po' antico, uomo con il monocolo, conservatore arguto e piacevole, vestito sempre con ricercatezza anche mentre dipingeva tra pennelli e colori, impeccabile sia nella vita privata sia nello studio davanti al cavalletto - che per Pontecorvo era una specie di altare. Pontecorvo aveva un rapporto con la pittura che sembrerebbe mistico se i suoi temi non fossero spesso un po' sensuali, ma la sua sensualità è spesso solo suggerita o data semplicemente con il colore."

Così, in questa piccola opera dalle dominante gialle, che in una rivista degli anni '50, appare intitolata "Annunciazione?", c'è molto del suo spirito controcorrente. Un angelo che non è un angelo. Un'annunciazione senza Madonna. Ma in fondo chi ci dice che questa sia proprio "quella" annunciazione?

PAZIENZA, LA SCRITTURA CHE DISEGNA.

Se leggete Sturiellet (ll Viaggio in Puglia), o Zanardi, scoprirete che Pazienza è stato forse il primo in Italia a miscelare la struttura narrativa del romanzo a quella del fumetto. A delineare una lettera trasversale che prima non era mai stata percorsa, miscelando poesia, memoria, cinismo, ironia. Insomma, la comic novel.
Con un segno contemporaneo, acido, ironico, affettuoso, capace di eccellere nel bianconero come nel colore.

 
Una vita bruciatasi troppo presto per colpa dell'abuso di droghe, ben evocata da un bellissimo libro che vi consigliamo di non farvi sfuggire: - Prima pagare poi ricordare. Da «Cannibale» a «Frigidaire» Storia di un manipolo di ragazzi geniali di Filippo Scòzzari  pubblicato da Coniglio Editore.

P
er ricordare questo autore geniale, vi alleghiamo così un bell'articolo di Carlo Scaringi:


Andrea Pazienza è scomparso il 16 giugno 1988, mentre stava lavorando alla storia di Astarte, il cane di Annibale, rimasta purtroppo incompiuta. Con quel racconto il Paz era in qualche modo uscito dai suoi temi consueti, quelli del disagio giovanile di quegli anni narrati attraverso decine di vignette e tantissimi personaggi, tutti in qualche modo collegati alla realtà.
Sono passati vent’anni e più, ma il ricordo di Pazienza è sempre vivo, anche fra quei giovani che non lo hanno potuto conoscere direttamente attraverso le sue vignette e le sue storie sconclusionate (ma non tanto) che comparivano sui periodici di tutta Italia, da quelli ferocemente satirici e contestatori come il Male o Frigidaire a quelli inseriti, almeno economicamente, nel “sistema” che il disegnatore ferocemente combatteva con i suoi disegni.
Tra il 1977, quando Alterlinus cominciò a pubblicare “Le straordinarie avventure di Pentothal” al 1988 quando la rivista Comic Art ospitò le prime tavole di Astarte, Pazienza è stato il cronista fedele ma anche arrabbiato di un decennio abbondante, e soprattutto difficile, della storia italiana, ricco di fermenti, speranze, delusioni e forse sogni, per tutti e anche per il fumetto italiano, che vide il fiorire di molte riviste d’autore e di personaggi ormai storici come Ken Parker e Dylan Dog.





Tra i suoi tanti meriti, Pazienza ha avuto anche quello di aver fatto compiere al fumetto italiano un salto di qualità, facendogli perdere quel taglio evasivo che talvolta aveva, per immergerlo in una realtà – vista magari in modo deformato – che era poi quella in cui vivevano i giovani. Pazienza, con le sue storie di emarginazione e di rabbia, ha dato corpo concreto al disagio giovanile, che in un certo senso era anche il suo disagio di artista insofferente al peso di una società incapace di soddisfare le giuste richieste delle classi che non avevano voce. Un disagio che si è espresso anche fisicamente, con quella sua ricerca di tranquillità, che per qualche tempo aveva tentato di trovare perfino nelle droghe. Una volta uscito dal tunnel, si era ritirato in campagna, tra Toscana e Umbria, soprattutto a Montepulciano, dove forse aveva scoperto quella serenità agreste e bucolica che talora si avverte anche nelle sue storie. Ma era troppo tardi, purtroppo.

Per saperne di più
Andrea Pazienza è nato il 23 maggio 1956 a San Benedetto del Tronto, ma è vissuto tra San Severo e Pescara, per poi maturare artisticamente a Bologna. I suoi personaggi, pur con caratteristiche diverse, sono figli dello stesso disagio. Il primo è stato, nel 1977, Pentothal, protagonista di una storia sospesa tra fantasia e realtà, con risvolti umoristici e avventurosi, con droga e violenza e un disegno grottesco e dissacrante. Poi è venuto Zanardi, al centro di molte storie, un giovane che sprizza rabbia, disagio, violenza da ogni vignetta, o quasi. Altro eroe negativo del mondo di Pazienza, e come Zanardi vagamente autobiografico, è Pompeo, che attraversa molteplici e drammatiche esperienze, fino al suicidio.
Quasi tutte le storie di Pazienza nel corso degli anni sono state più volte ristampate, principalmente dagli Editori del Grifo. Recentemente la Fandango ha riproposto la storia di Astarte e nelle scorse settimane le vignette che Paz aveva dedicato a Pertini, apparse per lo più sul Male. E’ un singolare incontro tra due personaggi insofferenti, un po’ rompiscatole, liberi e provocatori, entrambi amici dei giovani e dai giovani molto amati.


GIUSEPPE MANFREDI: METAFISICO E PITTORE.

Giorgio Morandi ha passato la sua vita a dipingere bottiglie e bicchieri. Giuseppe Manfredi (Seravezza - Lucca 1934 - Montecatini Terme - Pistoia 1987), no, spaziando dalle nature morte alla scene all'aperto, dagli ambienti ai ritratti. Questo non vuol dire che uno è un profeta e l'altro no. Ma neanche che continuare a esplorare la stessa tematica apre le porte dell'inconscio. Uno e famoso, l'altro no, o comunque molto meno. Ma quando vedo un'opera di Manfredi la riconosco, e mi piace, anche appartiene a quel genere che non dovrebbe proprio interessarmi.
  


Manfredi appare così come un artista colto, padrone di una tecnica sapiente, densa, che trova nella pittura di Massimo Campigli, suo amico e in parte maestro, chiari riferimenti stilistici.
Anche per questo la natura morta che vi presentiamo, dei primi anni '60, e che il pittore forse amava di più, ha un significato importante. Saggio di pittura italiana, che coniuga la metafisica di Giorgio De Chirico con la compostezza di Morandi, con la tecnica della Scuola Romana. Anzi con la tradizione della pittura italiana di Simone Martini. E con Carrà, che di lui scrisse: "...nella pittura italiana c'è un filo sottile, che ci lega, a me, come a Manfredi, a Giotto e a Masaccio. Ma un filo che non diverrà mai un laccio..."



Da una "natura morta" prende così vita una composizione "racchiusa in se stessa", capace di comunicare atmosfere e suggestioni di altri tempi. SIamo alla fine degli anni '50, in un momento destinato a storicizzarsi come lo spartiacque tra un mondo e un altro, e fra due modi diversi di vivere l'arte figurativa. Morirà, ancora giovane, a 53 anni, lasciandoci un numero limitato di opere.