Gino Rossi in prigionia, 1926 |
“…la
pittura di Rossi lo porterà dritto al manicomio.”
Arturo Martini
Primavera in Bretagna, 1909 |
Contate
sino a due e iniziamo il discorso.
UNO.
La qualità di un artista non è sempre correlata al suo grado di notorietà.
E’ risaputo, ma conviene ripeterlo, perché lo dimentichiamo.
E’ risaputo, ma conviene ripeterlo, perché lo dimentichiamo.
DUE.
Follia e alienazione, con il loro fascino sinistro, odore di piscio e segatura,
al pari del suicidio, delle tossicodipendenze e della bulimia sessuale, finiscono
per modificare la percezione che abbiamo di un artista e della sua opera, offrendo
di essa una lettura romantica e mediata. Cosa oggettivamente corretta, ma che applicata
automaticamente finisce per semplificare la lettura critica, banalizzandola in
un puro meccanismo di causa e effetto.
“La fanciulla del fiore” (1909) |
Ora,
se volete, possiamo iniziare a parlare di Gino Rossi (Venezia, 1884 - Treviso, 1947),
uno degli artisti più importanti del ‘900 italiano, poco conosciuto, sempre
meno ricordato e studiato. Tanto che il suo Catalogo
Ragionato è stato accusato di avere in copertina addirittura un falso.
Quando lo citai a un esame universitario a Nello Ponente, critico militante, mi
guardò con aria bovina e mi disse annoiato “…Gino
Rossi? Fffff….Non mi interessa.”
Peccato,
perché era un Maestro. Un Maestro al quale la grave malattia neuropsichiatrica ha
minato 35 anni di esistenza, causando cecità progressiva e disturbi della
memoria, finendo per saldare vita e arte, offrendo una visione unica,
artefatta, spesso inscindibile.
All’esordio
dei sintomi gli fu diagnosticata una schizofrenia, alla morte una demenza da
encefalopatia luetica. Un’infezione sessuale, la sifilide, contratta
probabilmente a Parigi nel 1912, non capita e mai curata, caratterizzata da
sintomi gravi e degenerativi, che si inserirono su una personalità fragile e
complessa. Aggravata da traumi non confessati che emergono dalla storia
familiare, dall’abbandono della moglie, da problemi economici, dalla permanenza
coatta in un campo di concentramento, dal 1916 sino alla fine della Guerra.
Abbandoniamo
la vita, e torniamo alla pittura.
Perché
anche noi abbiamo avuto un Gauguin, per densità di segno e potenza coloristica.
Gino nome, cognome Rossi. Come il bomber, sempre infortunato.
Solo
che lo abbiamo nascosto e non riusciamo a guardarlo se non attraverso il
diaframma dei suoi disturbi psicotici. Un Van Gogh dei poveri, per forza
evocativa del segno che emerge in paesaggi parimenti sofferti e cosmologici che
Vincent avrebbe saputo apprezzare.
Un
pittore e incisore che ne contiene altri mille, fauve, cubista, avanguardista,
classico. Italiano. Europeo. Capace di dare vita a opere emozionanti, e a un
capolavoro, come “La fanciulla del fiore”
(1909), che metterei tranquillamente tra i 100 quadri del ‘900. E fanculo a
Nello Ponente.
E
ora, la fredda cronaca, come direbbe un giornalista del TG3.
Gino
Rossi, nome cognome che più banale non si può, nasce a Venezia nel 1884, a
calle degli Orbi, nel circondario di San Samuele da famiglia benestante. Studia
presso il Collegio degli Scolopi della badia Fiesolana, passando poi al liceo
Foscarini, che abbandonerà nel 1898. Notizia che me lo rende ancora più
simpatico.
Nel
1907 assieme all'amico scultore Arturo Martini si reca a Parigi, dove viene
attratto dalla pittura di Gauguin (oltre a quella di Van Gogh e dei Fauves) che
è stato appena riscoperto. Sulle orme del pittore di Tahiti, si reca quindi in
Bretagna, che rappresenterà per lui i tropici e l’assoluto (come Salgari),
ritornando con alcune opere tra cui il famoso dipinto “La fanciulla del fiore”, già citata, di vero respiro europeo.
E’
però alla Cà Pesaro che deve la sua
affermazione e l’inizio dell’amicizia fraterna con il critico Nino Barbantini.
Dal 1911 risiede a Burano e saltuariamente ad Asolo e Treviso, dove s’incontra
spesso con Arturo Martini. A queste prime opere fatte di esaltante colore se ne
contrappongono altre in cui l'artista denuncia una ricerca formale di rigoroso
impegno costruttivo, in continuo oscillamento tra regola e anarchia.
Nel
1916 Gino Rossi è chiamato alle armi, ma viene quasi subito fatto prigioniero. Destino
comune a tutti gli sfigati.
Nel
campo di prigionia soffre profondamente tanto che al suo ritorno appare
sconvolto. La prigionia lo ha cambiato per sempre, provocando un progressivo
turbamento mentale.
Il
ritorno in patria e i nuovi contatti con l'arte aprono a Rossi nuove visioni e
nuovi indirizzi, che portano la sua pittura verso il Cubismo, risalendo fino
alle origini della lucida lezione di Cézanne. Ancora trentenne inizia a
manifestarsi la malattia, che nel 1926 lo condurrà dritto in manicomio, al Sant'Artemio
in Treviso, dove morirà il 16 dicembre 1947 per miocardite. Straziante uno dei
suoi ultimi quadri che rappresenta, tra segni espressionisti lo squallore del
manicomio.
Drammatica
la testimonianza nascosta in disegni di difficile interpretazione pittorica e
la descrizione di coloro i quali osservavano l’ostinazione in composizioni di
colore durante la sua lunga degenza in Ospedale Psichiatrico, quando era già
quasi cieco:
…fu un gran giorno, quello in cui gli
regalarono uno scatolone pieno di pezzi di carta variopinta. Lo visitai. Più
che l’occhio, la lesione, causa della notevole diminuzione della vista,
interessava la zona ottica occipitale. Destinato alla cecità, Gino Rossi godeva
ancora del senso cromatico, Provava ancora, ed intensamente, il piacere della
percezione dei colori. Si capiva, osservandone il lavoro, che egli stava
musicando per se stesso una composizione cromatica della quale lui e lui solo
comprendeva l’armonia e la bellezza….”
Amen.
Il cortile del Manicomio, 1926 |
Gino Rossi un artista fino alla fine . Per capire quanto ha sofferto basta leggere il suo epistolario. Eppure le sue opere erano piene di serenità e di gioia ( non tutte )Forse per fare grandi cose ,si devono patire grandi sofferenze.
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