UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


Seguiteci anche ogni mese su ARTeDOSSIER
https://www.facebook.com/museoimmaginario.museoimmaginario

https://www.facebook.com/Il-Museo-Immaginario-di-Allfredo-Accatino-487467594604391/




lunedì 24 marzo 2014

MANICHINI, ARTIGIANI E AVANGUARDIE DEL '900

A Roma in inverno non fa mai fatto freddo. Giuro.
A Parigi, sì, o forse sono stato solo sfigato. Così, passando veloce e intirizzito davanti a un negozietto, metà libreria - metà brocante - dalla vetrina qualcuno mi ha guardato. Veramente. Sentivo che mi osservava e non sarei più potuto sfuggire al suo sguardo. E neanche a quell’arietta gelida che fa tanto Maigret. Era un manichino articolato, di quelli da pittore. Sarà stato alto una quarantina di centimetri, brunito come Seedorf quando si incazzava, seduto su uno scaffale, con le gambe accavallate.

E allora ho capito. 
 

Ho capito che, come sempre, alcune cose fanno nascere altre cose. E che il suo volto, era la sintesi perfetta della pittura di Leger, Andre Lhote, di molte avanguarde, di un certo Picasso. Il naso affilato, il mento tondo, con “…gli occhi neri e il tuo sapor mediorientale…”. 
Manichini e Felice Casorati.

Mainichino e Costantin Brancusi


 

Si trattava di un manichino dell’inizio del ‘900, o forse di un decennio prima.  Costava un occhio della testa, 3000 euro o giù di lì, e non ho potuto, ovviamente, comprarlo. Perché la vita è ingiusta, ma questo è un altro discorso...

Tornato a casa, ho iniziato a cercarne altri esemplari.
Sorprendente come siano stati i manichini stessi, a volte, a ispirare gli artisti, e non viceversa. E’ stata la manualità di qualche artigiano sconosciuto, francese,
tedesco, italiano,  a far scattare una scintilla, nei pittori cubisti e metafisici e non solo. Questo, almeno, quello che ho pensato quando ho visto le teste da cappelliera il stile bidermeier in legno: quella che Raoul Hausmann avrebbe poi usato pre creare  la testa mccanica, di fatto il manifesto DADA. Quando ho visto il  cavallo di Carrà… i manichini dell’avanguardia russa. E poi, i manichini in cera o pasta di carta, quegli degli anni ’30, così simili alla pittura di quegli anni…



Questo è il bello della creatività. Che la può mettere in moto anche un oscuro e dimenticato mastro falegname, il Geppetto delle avanguardie storiche.
...
nessuno rivela le sue fonti. Tutto si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma in qualcosa di nuovo. Sempre.
 

Wojciech Weiss, 1934

Degas, ritratto Henri-Michel-Lévy nel suo studio- a terra il manichino vestito da donna usato per i quadri

photo Andre Derain - La Femme et le Pantin, vers 1930. Datemi quel manichino!

Carlo Carrà


Peter Birkhäuser, Puppet, 1938
Niklaus Stoecklin, Wig Stand Mannequin with Pear-Shaped Money-Box, 1929
 WOLS, Pavilion de l'elegance (Madeleine Vionnet), 1937
Stoecklin Niklaus, Gliederpuppe (1930)
Alberto Savinio
Elizabeth King - mannequin in a mirror
Manichino d'artista, 1700
Gyula Pap and Albert Henning - Dance with a mask, composition with feather and veil, 1930-33
 
1888, Wilhelm Trübner



Gustave Courbet’s studio
 

In the late 18th century and early 19th century, Paul Huot’s mannequins were the most sought-after among artists from Paris to St. Petersburg. The genre painter August von der Embde paid 1000 francs — an enormous sum — to have one sent to Kassel, Germany, while the British painter William Etty once waited a full year to obtain one. These “mannequin perfectionné,” as they were known, had an internal skeleton with moveable joints, horsehair stuffing, and an external cotton stockinette covering that mimicked human skin
 
Oskar Kokoschka 1912 
 
GIORGIO DE CHIRICO, ettore e andromaca, 1917


Italo Cremona 1939

Silvio Eruli, figlio di Erulo Erulo, e pittore novecentista










 Morris Kantor 1896-1974

FÉLIX VALLOTTON (1865 - 1925)                 

Alexander Yakovlev, 1921
 
Corner in my Atelier, around 1912, oil on canvas  
Nature morte dans l’atelier (Stilleben im Atelier)
Otto Dix, 1924
   
 
Man
Mannequin au miroir

Niklaus Stoecklin, vers 1930, collection privée

Mannequin (Gliederpuppe)
Wilhelm Lachnit, 1948,
Nu et mannequin
David Jagger, date inconnue
The Lay Figure, 1942 by Victor Hume Moody
Victor Hume Mody 1942
Matias Quetglas,1985

David Bowers nato nel 1956 in Chambersburg, Pennsylvania
 
Pietro Annigoni


Charlotte Perriand (Parigi, 24 ottobre 1903 – Parigi, 27 ottobre 1999) studio di posizione sulle poltrone



George Grosz (1893-1959) - Etude pour un mannequin
  


martedì 21 gennaio 2014

AUGUST STRINDBERG, SCRITTORE, ESPLORATORE DELL’ASTRATTISMO.


E’ possibile che l’arte astratta sia stata creata (direi meglio, esplorata e intuita) da un letterato, almeno 5 anni prima di Kandinsky. E con intuizioni che avrebbero esploso Nicolas De Staël e Mark Rothko esattamente 50 anni dopo?

Sì. No. Forse. Parliamone.




Johan August Strindberg (Stoccolma, 22 gennaio 1849 – 14 maggio 1912) è statoi un drammaturgo, scrittore e poeta svedese, riconosciuto tra i massimi letterati del mondo. E pittore, dal 1873 sino i primi anni del ‘900.


Per la vastità e la rilevanza della produzione (che ricopre praticamente tutti i generi letterari, raccolta in circa 50 volumi, a cui se ne aggiungono 22 di corrispondenze), il suo nome affianca il norvegese Henrik Ibsen all'apice della tradizione letteraria scandinava.
La vita di Strindberg fu però tumultuosa, tessuta di esperienze complesse e scelte radicali e contraddittorie, a tratti rivolta contemporaneamente a molteplici discipline non direttamente attinenti alla figura dell'autore: scultura, pittura e fotografia, chimica, alchimia, teosofia. Sintomi di una rottura intima del proprio animo con la dimensione convenzionale del tempo e del vivere, elementi dunque reciprocramente contaminati nell'atto creativo e fondamentali per la sua interpretazione.


Nel 1900 e nel 1901 realizza una serie di fondamentali ONDE, replicate in numerose varianti, alcune delle quali conservate presso il Musee d’Orsay. Una ricerca rivoluzionaria per il suo tempo, quasi filosofica. Non una volontà di rappresentazione, ma di ricostruzione dell’universo, imitando l’atto della creazione. Dando vita a una visione astratta e quasi cosmica. Egli stesso non si sente un professionista. Scrisse di sé nel 1894: "I select a medium-sized canvas, or preferably a board, so that I can complete the painting in two or three hours, while my inspiration lasts. [...] I distribute the colours around the board, and mix them there so as to achieve a rough sketch".


Un’intuizione la sua destinata a perdersi e dilatarsi, sino a sparire. Così, attratto dalla forza della parola, non portò a compimento e che non espresse e declinò in tutte le sue possibili forme e contaminazione. Opere in qualche modo orfane, che diventano la dimostrazione di come la luce dell’innovazione non segua mai regole predestinate.
Succederà ancora? Sì. No. Forse.




mercoledì 13 novembre 2013

LOUIS WAIN IL PITTORE PAZZO. PER I GATTI.



Avevo un gatto che ero un pezzo di merda. Pace all’anima sua. Ma neanche tanto…. Eppure, per quanto fosse stronzo e vendicativo, con attacchi improvvisi e immotivati nel buio del corridoio, non posso negare che fosse un oggetto biologico affascinante, in continua e costante trasformazione. Con una personalità magnetica così forte da farmi capire perché gli egizi avessero eletto i gatti a divinità. C’è infatti più magia in un gatto che in molte deità ufficiali. Anche se quel gatto è un pezzo di merda.

Forse è questo che deve aver colpito la psiche già disturbata di Louis Wain, un artista paradossalmente conosciuto più in ambito psichiatrico che artistico. Pendolo perennemente oscillante tra curiosità scientifica, qualità artistica anticipatrice, kitsch.
 
 

Nato il nel 1860, morto nel 1939, Louis fu all’inizio, semplicemente, un normalissimo, onesto, bravo illustratore professionista per molti giornali inglesi, ma anche paesaggista e vignettista (grazie agli insegnamenti della madre) con un gusto quasi esagerato per i dettagli, probabilmente sintomo precoce della sua incombente malattia e della sua crescente monomania: i gatti.

Wain raccontava che la sua passione per gli animali fosse nata grazie al suo gatto bianco e nero Pete, che faceva compagnia a lui e sua moglie, malata di cancro, quando questa ancora era in vita. Wain ritraeva Peter in pose buffe antropomorfe, con occhiali e cappellini, per divertire la donna. Quando questa morì, forse per sfuggire al dolore di quella mancanza, continuò a ritrarre gli umani in veste di felini e viceversa.





Wain era sempre stato considerato un soggetto affascinante, ma allo stesso tempo strano e bizzarro (avendo un labbro leporino la madre non aveva voluto mandarlo a scuola e lui aveva adottato modalità particolare di relazione con gli altri). Con il passare del tempo, tuttavia, divenne sempre più eccentrico fino alla comparsa, nel 1917, quando aveva 57 anni, di un quadro psicotico caratterizzato, tra l'altro, dalla presenza di tematiche paranoidee, dalla convinzione che la luce “tremolante“ dello schermo del cinematografo “rubasse” energia al suo cervello. Iniziò, inoltre, a limitare le relazioni interpersonali e a trascorrere buona parte della giornata rinchiuso nella sua stanza. Il verificarsi di comportamenti  aggressivi e violenti motivò nel 1924 il suo ricovero in un ospedale per indigenti, lo Springfield Mental Hospital.

La sua famiglia, composta da cinque sorelle anch'esse 'marcate' dalla malattia mentale, non era infatti più in grado di badare a lui. Paradossalmente, questa fu una fortuna, perché Wain, che continuò a disegnare i suoi gatti sempre più colorati e psichedelici, venne notato dallo scrittore H.G.Wells (autore de La Guerra dei Mondi) e tramite la sua influenza fu trasferito in un ospedale migliore, dove potè passare il resto dei suoi anni disegnando, in un giardino, circondato da piante e dai suoi amati felini. Oltre a Peter, che fu sempre il suo modello preferito, vissero con lui, per molti anni, la soriana Minna, il siamese Bigit e, ultimo, Leo, il persiano rosso tabby.




Nei suoi dipinti i gatti subirono una decisa trasformazione nel corso degli anni, trasformazione che sembra essersi sviluppata col procedere della malattia: dai dipinti più raffinati raffiguranti gatti nobili passò a dipinti dall'aspetto psichedelico, dove gli occhi dei gatti diventavano enormi e le figure quasi esplose in figure geometriche coloratissime, un tratto considerato indicativo della sua psicosi. Con un segno che sembra presagire la pop art ma anche la street art. Con i fogli riempiti sino all’inverosimile, con un stile che ricorda un po’ le composizione di un altro grande artista alienato con Adolf Wolfli.  
Dopo aver ritratto soriani e cappuccini, siamesi e gatti randagi  negli atteggiamenti più svariati e con stili diversi, chiuse il conto con la  sua lunga e tormentata vita nella notte del 4 luglio 1939, a Napsbury, nello Hertfordshire, a 79 anni. Che il Dio dei Gatti lo abbia in gloria.




P.S. divertente il fatto che sia diventato anche una icona del mondo dei tatuaggi, con la sue creazioni create e replicate sia a colori che in monocromia.









giovedì 12 settembre 2013

I BALLI PLASTICI DI DEPERO. RIVOLUZIONE MECCANICA.


I “Balli Plastici” stanno al teatro come “Metropolis” sta al cinema. Si tratta, infatti, di una delle prime sperimentazioni di teatro d’avanguardia, basata su un principio semplice quanto dirompente che sarebbe stato esplorato in quegli anni in Russia, e dalla Bauhaus e Schlemmer negli anni a venire: “gli attori sono marionette dai movimenti meccanici e rigidi: personaggi che richiamano i valori dell’infanzia, del sogno, del magico...”. 
Un progetto nato nel 1917-1918 dalla collaborazione tra il futurista trentino Fortunato Depero e il poeta svizzero Gilbert Clavel, che vide la partecipazione artistica di alcuni dei maggiori musicisti dell’epoca, come Alfredo Casella, Gerald Tyrwhitt, Francesco Malipiero, e anche Bela Bartók, che firmò con lo pseudonimo di Chemenov. I Balli Plastici vennero così rappresentati a Roma nel 1918 e replicati undici volte nel Teatro dei Piccoli in Palazzo Odescalchi, uno spazio asssolutamente inedito, creato dal mago dei burattini Vittorio Podrecca.



L’idea base, nata come provocazione e follia utopica, si delineò nel 1917, quando, Depero soggiornò con il poeta svizzero a Capri per studiare le illustrazione del racconto "Un istituto per suicidi". Clavel, noto a Positano con il soprannome dello scartelluzzo (il gobbetto), viene così descritto da Depero: "Un signore piccolo, gobbo, con naso rettilineo come uno squadretto, con denti d'oro e scarpette femminili, dalle risate vitree e nasali. Un uomo di nervi e volontà, dotato d'una cultura superiore. Professore di storia egizia, indagatore ed osservatore con sensibilità d'artista, scrittore, amante del popolo, del verso, della metafisica […]. Compositore di liriche, era anche un gaudente e un sofferente".

Depero è fortemente attratto dalla fisicità particolare dell'amico, che diviene sua fonte di ispirazione e suo punto di riferimento. Clavel, per la corporatura estremamente esile e per la piccola statura, richiama alla memoria una marionetta: nelle fotografie che lo ritraggono, il collo appare incassato nelle spalle enfatizzate dalla gobba e gli abiti si presentano troppo "grandi".

Fortunato Depero


Gilbert Clavel

Depero aveva avuto modo di operare nel teatro, prima con Sergej Diaghilev, che ne visita lo studio assieme al pittore Michail Fedorovič Larionov e al coreografo e ballerino Léonide Massine e lo incarica di realizzare scene e costumi per "Il canto dell'usignolo", su musiche di Stravinsky, che però non saranno mai realizzati, e poi con Picasso, per i costumi di "Parade".

Dopo l'esperienza teatrale Depero non rientrerà più nella via sperimentale ancora seguita da Balla, ma cambierà traiettoria rispetto alle formulazioni proposte dalla "Ricostruzione futurista dell'universo".

Sempre durante il soggiorno a Capri crea i suoi primi "arazzi" futuristi, in realtà mosaici di stoffe colorate. Sono, questi, il primo esempio della trasmigrazione delle sue invenzioni teatrali. I suoi automi e pupazzi diverranno, infatti, un leitmotiv, non solo sulle stoffe ma anche nei suoi dipinti, e tale motivo dominante andrà a delineare quello che oggi è possibile definire come "stile Depero".
Di questa esperienza straordinaria, oggi ricostruita e riproposta anche a teatro in allestimenti filogici, rimangono gli studi preparatori e i bozzetti. Le Ombre, i Pagliacci, i Giganti Baffuti, i Selvaggi, L’Orso Azzurro. Bozzetti di costumi, schizzi di scenografie, marionette, particolari di scena, coloratissimi piccoli capolavori nati dalla passione per il teatro e dall'Intenzione, fuori da ogni regola contemporanea, di scoprire un modo nuovo di stare sulla scena.

 I Baffuti Giganti            




Gli automi da quel momento diventano una cifra stilistica di Depero anche per grafica e pubblicità

«... Per ottenere un maggior senso geometrico e di libertà proporzionale nei costumi, nei personaggi e nei rapporti fra scena e figura, bisognerebbe dimenticare addirittura l’elemento uomo e sostituirlo con l’automa inventato; cioè con la nuova marionetta libera nelle proporzioni, di uno stile inventivo e fantasioso, atta ad offrire un godimento mimico paradossale e a sorpresa…».
(F. Depero)