UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti 50 nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, progettisti, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


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martedì 31 gennaio 2012

L'INCREDIBILE STORIA DI GERDA WEGENER E DEL SUO STRANO MARITO


No. Non la conoscevo. E mi è capitato per caso, surfando in rete, di scoprire una sua gouache ambigua e coinvolgente. Quella pittura intrigante, che ti si siede accanto, ti parla all’orecchio e ti comunica cose non banali.
Cliccando sul nome dell’autrice, mi sono poi apparse, una dopo l’altra, immagini sempre inedite per inquadrature, taglio, stile. Donne eteree ed eleganti, tra modernismo e liberty, dallo sguardo profondo, sempre un po’ in tralice, dagli occhi bistrati. Alternate a sequenze di pornografia esplicita, pur venata di quel filo di art nouveau, che sa rendere romantico anche un gang bang.

Ho fatto cosi la conoscenza di Gerda Wegener, danese di nascita, francese di famiglia, nata nel 1889, capace di esporre al Salone d'Autunno e al Salone degli Indipendenti, divenendo apprezzata collaboratrice di riviste come Vogue, La Vie Parisienne, Rire, La Baïonnette. Prima di morire triste, povera e sola nel 1940, dopo aver seguito in Marocco il secondo marito, l’italiano Fernando Porta, in una fallimentare e velleitaria spedizione culturale che sognava di aprire un atelier d'arte nella Medina di Marrakesh. Operazione improbabile, decisamente cool per i tempi.

Ma la storia, non è questa…


Scopro, infatti, scorrendo le biografie in francese, che il suo primo marito, Einar Wegener, artista di talento, avrebbe sacrificato la propria carriera per aiutare la giovane moglie a realizzare la propria, sino a percorrere lui stesso strade mai esplorate.
Non solo la consiglia, la accudisce, gestisce per lei le faccende di casa, ma inizia a vestirsi da donna, nel segreto della casa, trasformandosi poco a poco nella modella preferita dalla moglie. Che, a sua volta, gli insegna l’arte del trucco, e che va personalmente a comprargli le mise che intende rappresentare.

Il gioco delle parti, evidentemente, prende un po’ la mano.
Gerda, che nel frattempo è divenuta lesbica e musa artistica dell’amore saffico, non solo condivide la scelta del marito, ma lo sosterrà sino in fondo, quando lui arriverà a ipotizza una cosa sino ad allora impensabile: diventare donna, a tutti gli effetti.

Il tribunale danese, che riceve la domanda, a sorpresa, la accetta, dimostrando una modernità che oggi sorprende.
Ma questo non basta. Einar decide di sottoporsi, primo uomo nella storia, ad un’operazione di cambio del sesso.
Un "taglio con il passato", che avviene nel 1930, grazie alla prima operazione registrata di vaginoplastica, che susciterà l’interesse morboso dei giornali del tempo.
Cambia il proprio nome in quello di Lili Elbe, e di fatto, l’operazione porta alla fine della loro storia d'amore e allo scioglimento del matrimonio con Gerda, con un divorzio che verrà sancito per editto da Re Gustavo.
Neanche Lili avrà, però, una storia a lieto fine. La chirurgia è agli inizi e ancora in fase sperimentale, i trattamenti sono dolorosi e invasivi.
In poco più di un anno si sottopone a 5 operazioni, e nel 1931, muore per uno stato infettivo. Secondo la leggenda, causato dal rigetto avvenuto durante il trapianto di utero, da lui voluto per cercare di rimanere incinta.



Era quindi lui, ognuna di quelle donne dallo sguardo provocante e pensoso che tanto mi avevano intrigato?
Sicuramente sì, come dimostra il suo ultimo ritratto scosciato e la foto in b/n del classico "prima" e "dopo" pubblicata con grande scandalo sui giornali dell'epoca.
Ma era solo questo il segreto dell’arte erotica di Gerda, capace di fermare con un colpo di pennello un battito di ciglia?
Non lo so. Ma è alla luce di una storia che sembra uscita da un best seller che mi piace presentarvi Gerda W. E suo marito Einar, Lili, Elbe.
Perché l’amore trionfa sempre. Ma qualche volta fa un sacco di pasticci.

A proposito. Nel 2015 il film “The Danish Girl” di Tom Hooper, per raccontare questa storia, che forse per primo, alcuni anni fa, raccontai in Italia. Amen.

 

L'ultimo ritratto del marito Einar Wegener prima dell'operazione di cambio sesso.

 Einar Wegener, Gerda e un amico, pochi mesi prima della morta di Einar
 

 





domenica 8 gennaio 2012

SCHAD. UN GRANDISSIMO, INCREDIBILMENTE CONOSCIUTO DA POCHI.

La provocazione può diventare intellettuale come diceva Schad "se ben rifinita e studiata" così,  "...anche una vagina può essere arte non solo quindi mero strumento sessuale". 
In “Deux Filles“ Schad ci mostra la bellezza del corpo femminile e la sua arte nel tentare la coscienza umana, con ragionamenti animaleschi e primitivi. La masturbazione diventa oggetto di venerazione, di studio se vogliamo ma non azione banale o scontata perché, lo sappiamo bene, ricercata dalle donne e dagli uomini che ne fanno uso. Uno sguardo perso nel vuoto ma cosciente dell’azione, del movimento che provoca piacere, la compagna di esperienze guarda l’amica nell’atto del godimento. Christian cerca strade proibite ma che provocano desiderio e godimento. Lui tedesco di Miesbach (Baviera), nato il 21 agosto del 1894, che vide la prima e la seconda guerra mondiale analizza non solo i tedeschi ma l’umanità stessa. Sempre al limite, se non apertamente scandaloso, Schad non si preoccupa di cosa disegna ma di farci comprendere perché lo ha fatto, il motivo per cui ha voluto vedere il piacere sui nostri volti. 


Studia all’Accademia d’arte di Monaco di Baviera è ben presto si avvicina hai gruppi Dada e d’avanguardia. La fusione con lo stile nuovo del novecento avverrà quando costretto a scappare per evitare il servizio militare si rifugia in Svizzera, Zurigo per essere precisi, dove nasce il movimento Dadaista. Influenze stilistiche ma non sostanziali perché il pittore tedesco è sicuro della sua arte e del suo pennello, mai in errore o superfluo. Lo stile si affina anche grazie ai suoi viaggi compiuti dopo il primo conflitto mondiale a Roma e Napoli, per poi trasferirsi a Vienna. “Nudo a mezzo busto“ è la continuazione d’azione di intenti del pittore che sembra volerci mostrare la donna dopo l’atto sessuale. Occhi stanchi ma goduti con una vena quasi “fumosa“ nelle pupille, capelli leggermente fuori posto , seni con capezzoli ben presenti e un accento di pelo sotto le due ascelle che intrigano l’occhio dell’osservatore. Le donne di Schad sono femminili, sensuali e tenaci, molto snob e alle volte timide nonostante la loro voglia, la loro esigenza di provocare. La collana della donna è fine, di classe sembra che arrivi direttamente dai quadri di Tamara de Lempicka o dalle illustrazioni femminili dell’Art Nouveau. 



Tutto è sensuale, molto erotico e non banale. Ma sulla sua pittura incombe il nazismo, Berlino viene sconvolta da Hitler e la sua permanenza nella capitale tedesca viene meno. Si avvicina al simbolismo e al realismo magico ma ormai tutto ciò non conta più: Schad si ritira dalla vita pubblica, stanco e sfiduciato. Si dedicherà a ritratti e ad opere su commissione. Un talento forse sprecato ma che ci regala opere uniche come per esempio “ Marcella “, fine donna di città che coccola un bellissimo gatto nero con occhi attenti. La solitudine in cui si chiude Schad lo aiuterà anche a creare nella sua Baviera lavori di eccelso livello, ma purtroppo le donne non erano più quelle di una volta. Il feeling era scomparso, la società non era più quelle di prima, le sue ragazze erano mutare l la guerra ed il nazismo avevano spazzato via tutto. “Marcella“ non appariva più bella come un tempo, anche se il suo abito violetto faceva risaltare le sue giovani forme. Rimaneva solo più il gatto nero portatore, si sa, secondo strane credenze di sfortuna e morte. Rimarrà solo fino alla morte Schad, spegnendosi il 25 febbraio del 1982 a Keilberg, piccolo paesino della sua amata Baviera. (J G Sapodilla)


Schad, in una fotografia degli anni '20.
Lo riconoscete in camera operatoria?


domenica 1 gennaio 2012

MAIL ART, DA BALLA A SILVIO LOFFREDO.

Umetti un francobollo e spedisci. La mail art (arte postale) è tutto qui. Una forma artistica che usa il servizio postale come mezzo espressivo. Un'arte affidata alla rete, nata molto prima che nascesse la "rete". Condivisa con mani sconosciute in fase di spedizione, affidata al caso nel suo smistamento, completata dal timbro di navigazione.



Una cartolina che, a partire dalle avanguardie del '900, diventa strumento di comunicazione. "Social", ancora prima che di questa dinamica ne esistesse la premonizione.
Un fenomeno che trova la sua massima espressione nelle culture nel futurismo e  nel dada, con gli invii multipli di Ivo Pannaggi, Balla, Depero. E che troverà più tardi, la codifica del gruppo americano coordinato da Ray Johnson (1962) e le sperimentazione del gruppo Fluxus e di Guglielmo Achille Cavellini, meglio conosciuto come GAC (1914–1990).
Così l'Italia può oggi vantare addirittura l'istituzione di due musei. Uno reale (Museo Civico e della Mail Art di Montecarotto), uno virtuale (MAGAM, Mail Art Gallery And Museum di Fermo). Con gruppi dedicati su Facebook (www.facebook.com/groups/cavellini, quello che probabilmente ci diverte di più), oltre  a un validissimo blog  sul tema (http://archivioophenvirtualart.blogspot.com).





Cosa c'è da dire allora di nuovo? C'è molto.
Ad esempio riscoprire il progetto spontaneo prodotto ininterrottamente per 50 anni da un grande artista come il fiorentino Silvio Loffredo.
Metà francese e metà italiano, figlio lui stesso di artista, allievo di Oskar Kokoschka. Espressionista, ma così carico di ironia, da doverla rovesciare non solo nelle forme di arte più tradizionali come pittore e scultura,  ma soprattutto nella corrispondenza che invia ai suoi tanti amici, artisti e intellettuali (dal 1945 sino ai primi anni del 2000).


Ogni Cartolina diviene così un'opera d'arte. Disegni, schizzi, caricature, si intersecano a una scrittura fitta e quasi illeggibile, che alterna informazioni private con filastrocche, poesie, aforismi. Un mondo magico, dove qualche affiora una vene di malinconia. O una risata amara.
Sarebbe bello poter oggi raccogliere questo materiale, ed è un invito a promuovere una mostra a lui dedicata, ma soprattutto dedicata ad una forma espressiva anarchica, visionaria, azzardata, temeraria del quale ha saputo essere uno dei suoi massimi cantori.


Silvio Loffredo. Autoritratto su cartolina, 1945


Silvio Loffredo è nato a Parigi nel 1920 da genitori italiani. 
Fu proprio il padre Michele, pittore di robusta inclinazione figurativa, ad indirizzarlo nell’esercizio dell’arte e a dargli i primi insegnamenti. Nella capitale francese Loffredo frequentò corsi di disegno e di nudo. Nel frattempo aveva preso a lavorare ma, pur impegnato nel lavoro, il giovane artista non smise la pratica e lo studio della pittura e dell’incisione.
A vent’anni, Loffredo partecipa al conflitto mondiale. Ma dopo l’8 settembre scelse di militare nei reparti italiani affiancati all’VIII armata e, come italian pioneer (questo è appunto il titolo delle sue memorie di guerra), risalì l’Italia via via liberata dalle truppe alleate.
Dismessa la divisa decise di dedicarsi definitivamente all’arte e, per completare la preparazione iniziata a Parigi, prese a frequentare dapprima i corsi dell’istituto d’Arte di Siena passando in seguito a Roma, all’Accademia di Belle Arti, dove ebbe maestro Amerigo Bartoli, e infine a quella di Firenze dove studiò con Primo Conti.
Nell’immediato dopoguerra Loffredo iniziò ad allestire le sue prime personali e a partecipare a importanti collettive, riscuotendo un immediato riscontro da parte del pubblico e dei critici.
A Firenze Loffredo frequenta per qualche tempo Ottone Rosai. Per quanto abbia contato l’amicizia e la lezione di un maestro come Ottone Rosai (ed accanto a lui andrà menzionata la fertile con Mino Maccari), Loffredo non si lascia irretire nel facile epigonismo. Frequenta a lungo Oskar Kokoschka a Salisburgo, da cui deriva la forte tensione cromatica di ascendenza espressionistica e, di pari passo, procede nella realizzazione, già intrapresa a partire dai primi anni cinquanta, insieme al fratello Victor, di film sperimentali, un interesse questo che l’artista ha continuato a coltivare fino ad oggi e che ha trovato numerosi riconoscimenti in occasione di rassegne internazionali di film d’autore, in Europa e in America.
Con i primi anni sessanta giungono i riconoscimenti internazionali. Loffredo viene chiamato a più riprese negli Stati Uniti e in Europa per tenere corsi o per commissioni di opere pubbliche (sue opere si trovano in musei di Parigi, Bruxelles, Ginevra, Los Angeles, Philadelphia, New York, Boston, Haifa, Milano, Firenze, Pisa).
E' stato sicuramente uno dei maggiori pittori fiorentini del '900.