Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno
il grado più elevato dell'intelletto, se la maggior parte di ciò che è
glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da
stati di esaltazione della mente a spese dell'intelletto in generale.
Edgar
Allan Poe
Roba da pazzi. Tra la fine del XIX sec e
l’inizio del XX secolo il numero delle donne alle quali veniva diagnosticata la
follia era quasi doppio rispetto a quello degli uomini. Si trattava di un
problema clinico?
Gli
storici della medicina lo escludono. Semplicemente, per fare rinchiudere una
donna, bastava rilevare un atteggiamento ribelle in casa o denunciare un
comportamento refrattario alle regole imposte dalla società, dal marito, da fratelli
o famigliari di turno. Comprese le relazioni extraconiugali, che potevano
essere utilizzate come simbolo di disagio e di degrado morale.
Una cosa
“tra maschi”, insomma, visto che il 99% dei medici erano uomini, 100% gli
autori delle pubblicazioni sulle quali studiavano i medici, così come uomini
erano i funzionari che ne avrebbero dovuto convalidare le decisioni. La pazzia,
poi, andava di moda. Sembrava la soluzione per tutto. Basti pensare che nel 1914,
solo in Italia, risultavano censiti 54.311 matti, l’1,5% della popolazione, con
un livello di assistenza, tranne poche eccezioni, di livello miserabile.
Di fatto se il Romanticismo identificava il disagio mentale come il meccanismo che a volte rivela la natura più profonda dell’individuo, il Positivismo cambia l’immagine della follia: non esiste più il "genio", ma il “folle”, irrazionale, e quindi un pericolo sociale.
Di fatto se il Romanticismo identificava il disagio mentale come il meccanismo che a volte rivela la natura più profonda dell’individuo, il Positivismo cambia l’immagine della follia: non esiste più il "genio", ma il “folle”, irrazionale, e quindi un pericolo sociale.
Le donne
poi, tanto per cambiare, erano considerate esseri diversi anche in questo
settore.
A dirla
tutta, si pensava che i loro genitali, utero e clitoride potessero portare
nella maggior parte dei casi a disturbi della personalità. Lo avevano scritto
gli egizi, lo aveva ribadito Ippocrate, che aveva coniato il termine “isteria”,
da “histeron” ovvero utero. Lo pensavano i medici vittoriani che, per
praticare il massaggio dei genitali, di questa malattia diffusa soprattutto
nelle classi borghesi, ordinavano di praticare il massaggio dei genitali con
conseguente “parossismo isterico” (non denominato orgasmo, ovviamente) sino a
proporre “massaggiatori meccanici” e vibratori come strumento di cura.
In questo
contesto si credeva, così, che le donne non potessero produrre vere opere
d’arte, relegando la loro creatività al mero settore della decorazione e
dell’artigianato femminile. Anche per questo negli Istituti di Cura che hanno
conservato e catalogato con attenzione molte delle opere d’arte realizzate da
pazienti maschili reclusi per malattie mentali non hanno quasi mai archiviato
opere realizzate da pazienti donna.
Quasi nulla è così rimasto dell’opera di Katharina Detzel (1872-1941), tedesca. Internata in un istituto di malattie mentali a Heidelberg nel 1907 dopo essere stata accusata di aver immaginato e architettato un attentato ferroviario come protesta politica, trascorse il resto della vita in carcere prima di essere eliminata, nel 1941, nel progetto nazista “Progetto Action T4”, di miglioramento della razza che portò all’esecuzione di migliaia di alienati mentali e portatori di handicap.
La sua
storia venne però raccolta e raccontata dallo psichiatra e storico dell’arte
Hans Prinzhorn, tra i primi a studiare i dipinti e i disegni dei malati mentali,
fondando quella disciplina che è detta arte
psicopatologica, dando vita a una fondamentale collezione di arte irregolare, ora conservata presso
la clinica psichiatrica dell'Università di Heidelberg - Sammlung Prinzhorn.
Katharina
che disegnava e amava scrivere, tanto da riuscire a mettere in scena una
commedia insieme agli altri degenti dell’istituto. Anzi ne divenne addirittura
la rappresentante sindacale organizzando una protesta per migliorare le
condizioni di vita, lanciando poi il progetto di creare una casa di accoglienza
per bambini.
Realizzava
anche sculture e composizioni con materiali di fortuna, come il pane, che lei
stessa ammorbidiva con la saliva.
Nel 1917
confezionò una bambola di sesso maschile a grandezza naturale realizzata con
pezzi di materasso e con la paglia ricavata da vecchi materassi. Dormiva con
lui, lo prendeva a pugni quando era arrabbiata, ci ballava insieme quando si
sentiva felice. Altro non sappiamo.
Hans
Prinzhorn (Hemer, 1866 – Monaco, 1933) prese questa manifestazione informe la
chiamò arte e alienazione e iniziò a
dargli per la prima volta identità, rivalutando anche la produzione delle
artiste alienate.
Un’intuizione
che nasce dai casi della vita, quando si trova ad accostare la sua Laurea in
Storia dell'Arte con la successiva specializzazione in Medicina e Psichiatria,
per analizzare e descrivere le opere artistiche dei malati mentali. Il libro L'attività plastica dei malati mentali,
traduzione dell'originale Bildnerei der
Geisteskranken (1922), nasce dopo aver prestato servizio presso la clinica
psichiatrica tedesca di Heidelberg, dove si occupò dei disegni dei pazienti.
Contemporaneo
e seguace del padre della psicoanalisi, Freud, e di artisti “degenerati” quali
Chagall, Kandinsky, Klee, Munch, Prinzhorn cercherà di spiegare la produzione
artistica dei malati mentali comparandola con quella degli artisti espressionisti,
Van Gogh compreso.
Prinzhorn
individua così un sottile legame tra sentimento dello schizofrenico e la
costruzione dell'artista moderno, dimostrandone comuni quali il rifiuto del
reale, il desiderio di svelare la verità che le convenzioni non permettono di
dire e il ritorno all'io. Come afferma Daniele Cencelli,
fondamentale nel pensiero prinzhorniano è il concetto di Gestaltung (creazione), interpretabile come un nucleo essenziale e
sovraindividuale di colui che crea e bisogno psichico di tradurre plasticamente
contenuti interni. Rifiuta, inoltre, la disparità tra arti maggiori e minori,
poiché frutto di uno stesso impulso artistico.
Grazie a Prinzhorn
questo tipo di produzione artistica dei malati mentali si libera dal giudizio
puramente estetico, per dare spazio alla loro capacità di comunicare e
trasmettere emozioni profonde. Gli schizofrenici, essendo incapaci di
comunicare utilizzando codici razionali abbattono la barriera tra l'io e
l'esterno mediante, appunto, produzioni
plastiche, liberi di esprimere paure, sogni, desideri e pulsioni.
L'analisi
degli scarabocchi dei malati mentali fu il primo approccio che Prinzhorn ebbe
nella clinica di Heidelberg, per poi analizzare, l’horror vacui, che porta ad annullare gli spazi vuoti, e infine i
disegni figurativi, che per incertezza del tracciato o i tratti apparentemente
infantili venivano di solito interpretati come sintomo del malessere, ma che in
realtà non riconducono obbligatoriamente a processi patologici. Del resto lo
stesso Picasso aveva detto: “A quattro
anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a
dipingere come un bambino.”
Una frase,
nella parte finale del libro, sintetizza il suo pensiero: “Ci troviamo di fronte ad un fatto sorprendente: l'affinità tra il
sentimento del mondo schizofrenico e quello che si manifesta nell'arte
contemporanea può essere descritta con gli stessi termini”, e ci porta a
comprendere il sottile limite che si interpone tra la cosiddetta Art Brut e le
produzioni artistiche contemporanee.
L'importanza
dell'opera di Prinzhorn è considerevole non solo perché fu il primo a liberare
la dignità dei malati, e un pioniere nella valutazione delle manifestazioni
patologiche, ma anche per essere riuscito a leggere e confrontare due mondi che
solitamente venivano considerati inconciliabili.
Ha aperto
la porta di una cella e vi ha visto dentro, semplicemente, un essere umano.
Calchi di alienati mentali, Heidelberg |
alienata con pupazzo, Stati Uniti August Natterer, Hexenkopf - The Witch's Head,1915, collection Prinzhorn |
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