Dieci a uno che non lo sapete. Ma Saul Steinberg, quello della celebre
copertina/icona di New York, era rumeno. E visse per sette anni in Italia. Prima che un imbecille introdusse le leggi razziali, e altri imbecilli, per ignoranza, decisero di cancellarlo. Ma andiamo per ordine.
Nel 1933 Saul partì infatti per Milano, dove si laureò al Politecnico in
architettura, e dove abitò, pubblicando vignette umoristiche sulla rivista
satirica Bertoldo.
Il periodo italiano lasciò un segno importante nella vita di Steinberg, che
per tutta la vita mantenne contatti con artisti e intellettuali italiani, come
Aldo Buzzi, tornando più volte a lavorare in Italia. Nel 1940, a causa delle
leggi razziali, fu costretto a partire per gli Stati Uniti, dove cominciò a
lavorare per il New Yorker: un
sodalizio fruttuoso (642 illustrazioni e 85 copertine), durato
sessant’anni.
Nel 1943, presa la cittadinanza americana, si arruolò in marina, e passò
gli anni della guerra fra l’estremo oriente, l’Africa e l’Italia. Nei decenni
successivi viaggiò molto in Africa, America ed Europa, e vivendo anche a
Parigi, Hollywood, e in Italia, e consolidando la sua fama di disegnatore di
vignette mute, leggero e profondissimo.
Quello che non sanno è che degli imbecilli, a causa di un intervento
condominiale scellerato, hanno cancellato nel 1997 uno dei suoi lavori più
inusuali e bizzarri, la sua decorazione (graffito nero su fondo bianco) di
inizio anni ’60 nell’androne della Palazzina Meyer a Milano su progetto dello straordinario
studio di architetti BBPR.
Un affresco, o meglio graffito, realizzato dall' artista nel '61, dopo mesi
di lavoro, nell'ingresso dello storico palazzo di via Bigli 5, nel cuore nobile
di Milano. Un intervento grande più di cento metri quadri, carico di immagini e
di personaggi, che occupava tutti i lati dell'androne di casa. Su mura
probabilmente distrutte per costruire una megabitazione di 1000 mq, senza che ci sia stata un intervento dei Beni
Culturali, che non avevano notificato l’edificio. Senza sapere se l’opera in
carico al direttore dei lavori l'ingegnere comasco Giacomo Mantegazza
sia stata distrutta o coperta.
Un mondo di scribilli e forme perse per sempre, che possiamo rivedere solo
nelle foto lasciate da Ugo Mulas.
Una signora che abitava nel palazzo, così raccontà a Repubblica: “Anch' io mi chiedo che fine abbia fatto. Ma non lo so. Ricordo che fu
mio padre a commissionare il graffito nel 61. Non posso dimenticare i mesi di
lavoro di Steinberg, nell' ingresso di casa. Era un personaggio affascinante,
molto originale, si intratteneva spesso a parlare con noi. Diceva che Don
Chisciotte era un precursore della psicoanalisi, perché prendeva sul serio i
mostri e li combatteva…”
(…)
Ho passato clandestinamente quasi un anno, dormendo un po' al Grillo un
po' in uno studio di amici e riuscendo intanto a prendere i visti che
mi occorrevano. L'unico che mi mancava era quello italiano, che non mi
davano senza la mia presenza fisica, la prova di aver rispettato la legge.
Ho dovuto arrendermi. Con l'arresto il mio dossier era completato e concluso in modo legale. Correvo un rischio, ma era l'unica cosa da fare e l'ho fatta e è andata bene. Ho un po' di amnesia riguardo a quel tempo: vivevo in una specie di emozione che copriva occhi, orecchi, tutti i sensi con una specie di ovatta, per nascondere a me stesso la gravità della situazione. Mi sembrava di essere nel gioco di qualcun altro, di vedere me stesso come se fossi un altro, qualcosa di simile alla situazione dell'uomo che disegna un uomo: forse un sintomo di infanzia persistente, che non finisce, da cui non si guarisce.
Da: Saul Steinberg con Aldo Buzzi, Rifessi e ombre, (biblioteca Adelphi) pp. 27, 30
Ho dovuto arrendermi. Con l'arresto il mio dossier era completato e concluso in modo legale. Correvo un rischio, ma era l'unica cosa da fare e l'ho fatta e è andata bene. Ho un po' di amnesia riguardo a quel tempo: vivevo in una specie di emozione che copriva occhi, orecchi, tutti i sensi con una specie di ovatta, per nascondere a me stesso la gravità della situazione. Mi sembrava di essere nel gioco di qualcun altro, di vedere me stesso come se fossi un altro, qualcosa di simile alla situazione dell'uomo che disegna un uomo: forse un sintomo di infanzia persistente, che non finisce, da cui non si guarisce.
Da: Saul Steinberg con Aldo Buzzi, Rifessi e ombre, (biblioteca Adelphi) pp. 27, 30
se solo la mamma degli imbecilli non fosse sempre così predisposta alla procreazione... ma forse i tratti di una persona come Saul si noterebbe meno.
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