UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


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giovedì 31 dicembre 2015

LA SPIAGGIA DI CHARLES MEERE E LE COSE NON DETTE

Charles Meere, non era mai andato al mare. O meglio, lo aveva visto, perché come fai a non vederlo se sbarchi in Australia? Ma non ci andava. La sua allieva e collaboratrice Freda Robertshaw dice senza dubbi: "Charles non è mai andato in spiaggia. Abbiamo realizzato la maggior parte delle figure, utilizzando se serviva uno dei dipendenti, Charles, come modello per le mani e per i piedi, ma mai con la figura completa…“. 

 
Eppure negli anni ’30 la spiaggia prese a rivaleggiare con l’entroterra come uno dei simboli di definizione della vita e della cultura australiana. La spiaggia diventa simbolo di edonismo, di piacere, di socialità, di sport sano. Tema che, non a caso, i nazisti, negli stessi anni, avevano utilizzato a piene mani come sistema di propaganda ariano.
La spiaggia, poi è democratica. Tutti ci possono accedere, poche sono le differenze tra ricchi e poveri. E’ moderna, perché sintetizza un nuovo modo di vivere che differenzia i contemporanei dai loro padri.
Charles, al pari però degli antichi, sceglie un soggetto pieno di significati (poteva essere una scena biblica, o una battaglia) e lo utilizza per sperimentare un nuovo linguaggio figurativo che cristallizza il tempo, che si era diramato nel mondo, che ora è finalmente giunto in Australia (1938-1940), che offre un nuovo vigore al figurativo, e che per molti versi può essere assimilato alla Nuova Oggettività.
Charles ha 50 anni, ha studiato gli italiani, la scultura di Donatello e del Pollaiolo, la fuga delle donne di Jacopo della Quercia, la Madonna Esterházy di Raffaello che appare quasi ricalcato nella donna con i bambini sulla sinistra della tela.


Insomma, mette la sua conoscenza al servizio di un nuovo continente. Per far nascere una nuova icona. Il tema non è “un giorno in spiaggia” ma “una spiaggia australiana”, e appare la celebrazione della positività. Non si tratta di eugenetica razziale, come qualcuno ha detto, ma di celebrare un popolo che possiede energia e ha una visione solare. Forse anche inadeguato ad affrontare la tragedia del nuovo conflitto che si sta diramando in quei mesi nel mondo.  Ci mise due anni a finire l’opera, e non è un caso. Perché tutto, non solo nella forma, potesse sembrare perfetto.   Matthew Charles Meree (6 dicembre 1890-17 ottobre 1961) è stato un artista londinese che ha studiato arte prima in Inghilterra e in Francia, servito nella prima guerra mondiale, per poi stabilirsi in Australia nel 1932-33. Dopo aver operato anche in ambito commerciale ottenne un notevole successo artistico vincendo il Premio Sulman nel 1938. Uno dei suoi colleghi lo descrisse come un eccentrico caratteriale, con l'aspetto di un uomo d'affari, e con un senso dell'umorismo buffo.  La sua opera Spiaggia Australiana è stata tra le immagini australiane scelte per il programma di cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Sidney del 2000.

nazi culto of body 1938

Freda Robertshaw -  Australian Beach Scene c. 1940


Jared French, State Park, 1946
George Tooker, Coney Island 1948



Renato Guttuso, la spiaggia, 1956
On Rehoboth Beach, Delaware

NORWOOD HODGE MACGILVARY (1874-1949)

On Rehoboth Beach, Delaware (USA, 1930)

John Sloan 1907-1908

Picasso, donne che corrono sulla spiaggia, 1922










mercoledì 30 dicembre 2015

IL MUSEO IMMAGINARIO HA UNO SCOOP. IL VERO VOLTO DI BABBO NATALE. CHE ERA IL VICINO DI CASA..

Che Babbo Natale, derivazione nordica di storie di folletti mixate con San Nicola fosse di colore verde foresta, e lo fosse rimasto per secoli, lo sanno tutti. O tutti dovrebbero saperlo... Meno si sa, invece, della storia del perché della sua tunica rossa e della sua faccia da alcolista.



Siamo nel 1931, l’America è appena uscita dalla grande depressione e la Coca Cola cerca di incrementare le vendite. Sono stati prima medicinale tonificante, poi bibita per adulti, poi hanno tolto le foglie di coca dall’infuso e vorrebbero vendere la bibita anche alle famiglie ed ai bambini. Cosa c'è di meglio di un Babbo natale per promozionare la bevanda per tutti? Si sarà chiesto il direttore Marketing, che all’epoca non si sarà chiamato così. Viene quindi commissionato il bozzetto a un illustratore di origini svedesi, Haddon Sundblom (Muskegon, 22 giugno 1899 – Chicago, 10 marzo 1976), famoso per le sue pin-up tettute, per creare una campagna pubblicitaria che esprima gioia, ottimismo, allegria e voglia di bere CocaCola. Vogliono un Santa Klaus “vero”, che beva la bibita perché la adora, non solo un simbolo.
La strada era già stata aperta dalle illustrazioni di Thomas Nast, che nel 1863 aveva disegnato per Harper's Weekly un Nabbo Natale, vecchio, grasso e con la tunica rossa. Ma l'immagine non ha sfondato ancora.


Il disegnatore pensa al tradizionale Santa Klaus…vescovo… elfo…, pensa a Nast, e decide di rinnovarlo, e lo veste coi colori della bibita. Un bel rosso intenso. 
Come si legge poi nelle biografie “Sceglie poi come modello un venditore in pensione, tale Lou Prentice che abita sul suo pianerottolo, una persona gioviale, un po’ sovrappeso, ma che ispira tanta allegria. Volendo dipingere persone vere nei suoi ritratti Sundblom ha bisogno di modelli reali… e li trova sottocasa.. i bambini sono quelli dei suoi vicini di casa ed il cane.. è quello del fioraio... dipinto di nero per l’occasione.”
Nasce così nasce la campagna pubblicitaria che durerà 37 anni. Poi, quando nel 1946 Lou Prentice stira le zampe, Sundblom pensa di fare di se stesso il modello.
 

Si dipinge davanti ad uno specchio aggiungendosi solo la barba e un anno perfino dipingendo la cintura di Santa che si chiude al contrario. Perché si era dimenticato dello specchio. Oh Oh oh! 



l'altro Sundblom...

Babba Natale...

Il babbo Natale di Thomas Nast, 1866

The original... 1906


1890






martedì 29 dicembre 2015

LOUIS DUFFY. IL PITTORE FANTASMA CHE DIPINSE LE MACERIE E GLI UOMINI DELLE MACERIE

 
Casuality N.1
Il Blitz, come lo chiamano i londinesi, è quel maledetto periodo di otto mesi - dal 7 settembre del 1940 al 6 maggio del 1941 - nel quale la capitale inglese fu sotto i bombardamenti nazisti per 57 notti. 
Ci furono 20.000 morti e 1,4 milioni di sfollati.
Le squadre di soccorso e pronto intervento dell’antiaerea sono quindi, purtroppo, una visione tragicamente comune a Londra e nelle altre grandi città della Gran Bretagna. Le squadre di volontari e manovali civili indossano tute e portano caschi d’acciaio contrassegnati con una caratteristica 'W' per custode e 'R' per salvataggio. Hanno lavorato notte e giorno, rendendo i siti strutturalmente sicuri prima di passare al setaccio alla ricerca dei resti e dei sopravvissuti. Questo è il tema di partenza di Casualty n. 1 uno straordinario e potente quadro di Louis Duffy.
Il problema è che nessuno sa chi sia Louis Duffy.

Christ driving out the money changers c.1940  122.4 x 152.9 cm


Un'altra opera, apparsa in asta da Sotheby's elencava Duffy semplicemente come pittore del 20° secolo. La composizione di questo secondo dipinto, una revisitazione contemporanea di una narrazione del Nuovo Testamento, è davvero inquietante: Cristo scaccia i cambiavalute, 1940 (Christ driving out the money changers) ora alla National Gallery of Victoria, Melbourne

Un’impressionante e grande tela, che misura più di un metro per un metro e mezzo. Mostra sedici uomini vestiti in giacca e cravatta. Il Tempio è stato tramutato in un cimitero, e i cambiavalute si sono incarnati in trafficanti di armi, che lucrano sulle tombe dei morti. La forza del quadro, reale, quanto allegorico, politico, etico, lo pongono come una delle più importanti opere della pittura inglese di quel decennio.

L’attenzione ha portato allora a ricercare le sue tele e a rivedere i passaggi di opere di guerra, o di paesaggi urbani passati in vecchie aste, o in quadri non firmati. Sono state così raccolte una selezione di opere tutte di grandissima qualità. Ma anche tele commerciali e pannelli privi di interesse, realizzate probabilmente per sbarcare il lunario.
La didascalia assegnata a uno dei suoi soggetti recita ”questa opera, dipinta da un artista impiegato su camouflage, mostra con realismo forte i danni degli attacchi aerei alla popolazione”. 
Questo ha aperto un possibile squarcio sulla verità. Durante la seconda guerra mondiale la WAAC, realtà ministeriale, impiegò infatti trentasette artisti tempo pieno, invitando anche altri civili a presentare le proprio opere realizzate sul tema. 246 artisti il ​​cui lavoro venne acquisito per la Gran Bretagna proprio in questo modo, tra cui, 5 tele di Louis Duffy, risalendo persino al carteggio con il quale egli vende per pochi sterline i quadri. Più interessato al significato civile più che all’opportunità commerciale-
Dopo la conclusione delle ostilità, il WAAC disperse queste patrimonio. In questo modo, alla fine del 1940, tre dipinti di Louis Duffy sono stati assegnati per l'Imperial War Museum (Camouflage, 1943, Caseggiato in qualche parte in Inghilterra, e L'ingresso in fabbrica, 1943). Un quarto dipinto è stato depositato presso Aftermath e un quinto lavoro, inviato in Nuova Zelanda, è finito in Galleria d'Arte di Wellington e successivamente Te Papa Tongarewa (Casualty n. 1). 
Mentre i dettagli di carriera Duffy rimangono ancora oscuri, la sua vita può essere scarsamente ricostruita. La sua corrispondenza con il WAAC conferma la sua residenza a Leamington Spa, Warwickshire. E' elencato come pittore, scenografo, decoratore murale, mosaicista e “craftsman”. Dopo la guerra Louis Duffy evidentemente continua a dipingere quadri da cavalletto, come la piazza del mercato, Nizza. Per guadagnarsi da vivere, però, sembra aver insegnato arte e aver lavorato sempre nel mondo dei musei. Dal 1950 ha dipinto murales per il Museo delle Scienze di Londra, South Kensington - recentemente messi in rete - e ha lavorato su diorami e modelli per molti dei servizi del museo. E su un progetto di decorazione che non avrebbe mai visto luce.
 
A block-house somewhere in England 1943
Imperial War Museum, London

Dati che oggi portano all'identificazione dell'artista con Louis Charles Duffy morto a Eastbourne nel marzo 1998, all'età di ottantanove anni, fornendo date vita per la nostra artista del 1908-1998.

Louis Duffy avrebbe avuto quindi trentun anni allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e settantaquattro anni di età al momento della sua ultima opera documentata. Anche dal letame, a volte, nascono fiori.







SCHELETRI FICHISSIMI IN TOUR




Belli, magri, ricchi, vestiti in maniera decisamente cool. Sono gli scheletri rinvenuti nelle catacombe di Roma e ospitati nelle chiese europee, che all’epoca cercavamo santi, per fare i fighi con i propri fedeli e far capire ai protestanti quanto fossero stronzi.



Questo il contesto de “La bellezza della morte” libro fotografico di Paul Koudounaris. Un cacciatore di reliquie che presenta la collezione di scheletri tempestati di gioielli conservati in alcuni dei centri religiosi più segreti del mondo. Migliaia di scheletri erano stati infatti rinvenuti dalle catacombe romane, e nel XVI secolo vennero trasferiti in Germania, Austria e Svizzera seguendo gli ordini del Vaticano. Mandati a chiese cattoliche e monasteri lontani per sostituire le reliquie distrutte, intorno al 1500, a seguito della Riforma Protestante.

Erano anche i simboli della nuova forza della Chiesa cattolica in aree che in precedenza erano state scismatiche. Ciascuno è stato accuratamente decorato con migliaia di chili di oro, argento e preziosi. Sono stati venerati come santi, anche se nessuno di loro si è qualificato per il titolo, secondo le rigide regole della Chiesa cattolica chiede quando i santi devono essere canonizzati.  Ma nel XIX secolo erano diventati ricordi morbosamente imbarazzanti, e molti sono stati spogliati dei loro onori e scartato. A voi, gli ultimi viaggiatori "Lost in translation".


 




LA CANZONE CHE TI FA SUICIDARE E LA CITTA’ CHE MORI' DAL RIDERE



Dopo la prima guerra mondiale e i lutti del conflitto, una tragica epidemia di suicidio colpì Budapest. La cosa strana è che molti credevano alla storia che fosse tutto causato dalle influenze di una canzone popolare molto in voga all’epoca: Gloomy Sunday (titolo originale ungherese: Szomorú vasárnap) scritta dall'ungherese László Jávor e musicata da Rezső Seress nel 1933 in cui si fa riferimento esplicito al suicidio (ascoltatele in fondo al post). Secondo la più accreditata versioni il brano nacque durante una cupa domenica parigina. Seress era triste a causa di un litigio con l’amata, dovuto ai suoi ripetuti (e vani) tentativi di sfondare nel mondo della musica. La canzone, contrariamente alle altre da lui prodotte fu un successo, ma tre anni dopo (1936) iniziò a circolare la voce che il brano avesse un effetto deprimente o inducesse al suicidio, come parevano testimoniare diversi casi apparentemente legati al suo ascolto: una giovane commerciante berlinese impiccatasi lasciando ai suoi piedi uno spartito di Szomorú vasárnap; una segretaria di New York che, asfissiandosi con il gas, avrebbe chiesto che il brano fosse eseguito al suo funerale; una donna inglese avvelenatasi per mezzo di barbiturici mentre nel suo appartamento andava un fonografo automatico che riproduceva la canzone; un fattorino romano che si sarebbe gettato nel fiume dopo averla udita da un mendicante.
Nel 1941 Sam Lewis riarrangiò il brano per Billie Holiday; consapevole della sua tetra fama, il compositore decise di aggiungere una terza strofa, assente nella versione originale, nella quale chi canta spiega di avere in realtà solo sognato la morte della persona amata, e di averla trovata al proprio fianco al risveglio, viva e innamorata. Nonostante questo accorgimento la BBC decise di non trasmettere la versione di Billie Holiday, ritenuta troppo triste in un momento in cui Londra si trovava sotto i bombardamenti tedeschi. Questo divieto fu sollevato solo nel 2002.  Seress morì nel 1968, gettandosi da una finestra del suo appartamento a Budapest.


Ma torniano alla cura che Budapest pensò per debellare il problema, creando un “Club del sorriso” inaugurato nel 1937. Uno scherzo creato dal professor Jeno e da un ipnotizzatore di nome Binczo, che però prese piede. Gli organizzatori aprono una scuola per insegnare il sorriso Roosevelt, il sorriso Mona Lisa, il sorriso Clark Gable, il sorriso Dick Powell, il Loretta Young…
Ma non si fermando a questo, nacque la moda di fare “Le feste del Sorriso”, di disegnare sui muri bocche sorridenti, di farsi fotografare in modo buffo, di farsi ricamare i maglioni, convinti che l’allegria fosse contagiosa. Addirittura di creare mascherine per girare in città. E anche il cinema, in anni che si stanno colorando di buio, viene spinto a produrre film comici, compresi quelli italiani, realizzati fino al 1942, nel segno della collaborazione italo-ungherese. 


Come storia io la trovo divertente. Voi? No? Ah, ah, ah, ah…





Richard Gerstl – Autoritratto 1907






lunedì 28 dicembre 2015

CHARLOTTE PERRIAND: LA DONNA A CUI LE COURBUSIER RUBO' GLI OGGETTI


Charlotte Perriand (Parigi, 1903 – Parigi, 1999) è stata un architetto e designer francese, tra i maggiori protagonisti, dimenticati, del design contemporaneo, e spesso i suoi meriti, come nel caso di LC4, la chaise longue disegnata da Le Corbusier, Pierre Jeanneret (la moglie) e …guarda guarda …Charlotte Perriand.

Charlotte sulla "sua" chaise longue, nel 1929

Charlotte nel 1927
Charlotte nel 1935
Divertente il ritratto che ne da di lei Mauro Erro “…se avessi potuto, nel 1927, sarei andato al Dome o in uno dei caffè di Boulevard du Montparnasse per aspettare che un mattino una giovane studentessa ventiquattrenne dell’Ecole de l’Union Centrale des Arts Décoratifs, Charlotte Perriand, bellissima in un tubino beige e una camicia decorata con piccoli fiorellini e un grazioso capellino, con la cartellina dei disegni sotto braccio, impiegasse quegli otto minuti che separavano casa sua dal numero 35 di rue de Sèvres, per arrivare dinnanzi al prestigioso atelier del grande architetto Le Corbusier. Avrei voluto guardarle il viso tirato ed emozionato prima di entrare.
“Qui non si ricamano cuscini…” disse un sarcastico LeCorbù dopo aver guardato i suoi disegni. Dopo alcuni mesi ebbe modo di ricredersi quando al Salon d’Automne vide alcuni mobili progettati da quella giovane ragazza. Si scusò e l’assunse. La sposò pure, anche se non durò molto. Fu da allora che nel prestigioso atelier si iniziarono a progettare quei mobili che ingiustamente si attribuiscono al grande Le Corbusier, ma che invece erano il frutto di un genio dal nome Charlotte Perriand. Compresa quella chaise longue dove io mi adagio, meno leggiadro di lei, per leggere i miei libri e bere i miei vini. Anche se in fondo solo non lo sono mai...”

Le Corbusier is on the left, and her first lucky husband
Percy Scholefield is in the back.
Paris 1927



Dopo un periodo di studio all'Ecole de l'Union Centrale des Arts Décoratifs a Parigi ebbe alcune esperienze nel campo del disegno dei mobili e dell'arredamento, esponendo al Salon d'Automne. Nel 1927 inizia una collaborazione con Le Corbusier, durata in maniera continua fino al 1937. Nel suo studio realizzerà, insieme a lui e a Pierre Jeanneret, alcuni mobili entrati nella storia del design. Inoltre ebbe incarichi nello studio relativi al progetto di molti arredi degli edifici progettati. Nel 1930 intraprese un lungo viaggio in Unione Sovietica, che la mise in contatto con l'ambiente fertile di idee del costruttivismo russo. Nel 1933 fu una delle poche donne a partecipare al IV CIAM ad Atene.  Nel 1940, mentre la Germania stava invadendo la Francia, Charlotte si imbarcò per il Giappone, dove era stata invitata a tenere un seminario sul nuovo design. Vi ebbe occasione di realizzare prototipi con un gruppo di studenti e, successivamente, un'importante esposizione. Dopo l'entrata in guerra del Giappone con gli Stati Uniti,  fu segregata. Con avventurose vicende, raccontate nella sua autobiografia, riuscì a sopravvivere alla catastrofica guerra e ritornò in Francia nel 1946, con il nuovo marito e la figlia avuta in quegli anni.  La vita professionale riprese con nuove collaborazioni. Oltre al rapporto con Le Corbusier, con cui collaborò ai progetti dell'Unità di Abitazione di Marsiglia, ebbe esperienze con il pittore Fernand Léger, con Jean Prouvé, con Lucio Costa ed altri importanti architetti. Tra l'altro, fu particolarmente impegnata nella realizzazione di stazioni sciistiche in Alta Savoia.  Nell'ultima parte della vita rallentò l'attività ma mantenne sempre aperto il suo atelier. E’ morta a 96 anni.