Enrico Accatino (1920-2007), nel corso di un incontro con giovani artisti nel suo studio, nel 2001, raccontò per la prima volta, almeno così disse, come fosse nata la sua passione per l’arte. Non una passione come tante, di quelle che si possono avere nell’adolescenza, ma una “necessità” dalla quale non avrebbe potuto sottrarsi.
Era figlio di contadini piemontesi, che poi avrebbero fatto una certa fortuna nel commercio a Genova, del tutto privi di riferimenti culturali e di letture. E in quell’ambiente così semplice, senza libri e supporti scolastici, tra vignaioli e capomastri, aveva iniziato a ritrarre i musi delle bestie nella stalla e le colline avvolte dalla nebbia, con mezzi di fortuna e nessun riferimento formale se non i santini della chiesa.
Così a 14 anni, quando seppe che ad Alessandria era arrivato il famoso pittore Carlo Carrà, inforcò la bicicletta per cercare di conoscerlo, pedalando come un forsennato sotto la pioggia per scendere verso dalla collina verso la piana. La strada era sterrata e ogni buca si trasformava in uno schizzo di fango.
Carrà, che stava al bar sulla piazza, vedendolo zuppo e inzaccherato, e ascoltando i suoi ragionamenti strampalati, lo prese un po’ in giro. E per toglierselo di torno, gli diede anche qualche spiccio.
Da quel momento Accatino, come ci raccontò, fu ancora più convinto di fare il pittore. E di vivere di arte. Ma anche di non voler essere come Carrà, il signore col panciotto, e come molti dei pittori che avrebbe conosciuto negli anni a venire.
Enrico Accatino, scalzo nell'aia, San Salvatore Monferrato, 1931 |
con Silvio Loffredo (alla destra), a Parigi, nel 1947 |
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