Questo breve articolo non sarebbe mai esistito se non avessi casualmente scorso
un “pezzo” scritto su un sito di toponomastica per contestualizzare il nome
dato a una strada. Una breve bio, intensa e appassionata, scritta da un editor
anonimo, di quelli che amano il proprio lavoro, che approcciava il tema con uno stile degno
di Flaubert, che vorrei citare, doverosamente in corsivo:
“Una vita piena di misteri quella di
Deiva Terradura. Di lei non ci sono notizie anagrafiche certe. Nulla nei
registri delle nascite né in quelli dei battesimi; nulla di certo neanche sul
giorno della morte, né una tomba che ricordi il suo nome. Del resto Il cognome
Terradura, ereditato dalla madre, sembra riassumere tutte le difficoltà di una
vita fatta di fatica e sacrifici…”.
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Autoritratto con sigaretta. 1921 |
Nata in una famiglia povera, probabilmente a Farneto, un borgo
non lontano da Perugia, o a Piccione, vicino Gubbio, Deiva Terradura (si scoprirà
poi anche il secondo cognome, Riposati) nacque intorno al 1885 e la mancanza di
un atto di registrazione fa presumere che sia figlia di una ragazza madre.
Cresce in maniera semplice e forastica, ma ribelle e curiosa,
sin da giovanissima, lascia l’Umbria per venire a Roma. Ma non vuole fare la
servetta, come fanno le sue coetanee, preferisce vendere violette a Piazza di
Spagna.
Molto bella, dal “sorriso seduttivo” secondo le
testimonianze del tempo, anche se le poche foto esistenti ne esaltano invece i
lineamenti duri, viene ben presto richiesta come modella dai pittori della
vicina Via Margutta.
E’ così che conosce l'acquarellista e architetto liberty
inglese William Walcot (nato però a Odessa in Russia nel 1871) giunto a Roma
come docente del British Institute. Lei ha 18 anni, lui 32. Scoppia l’amore.
Va a vivere con lui e con lui inizia con lui a viaggiare e a
soggiornare a Londra e a Parigi, dove entra per la prima volta in un museo, e
dove vede le grandi opere dell’arte contemporanea. Si compie, di fatto, di colpo, la sua istruzione e si avvia
alla pittura, colpita dalla trasgressione e dalla libertà dei fauves, le belve,
dall’espressionismo di Van Gogh e dalle cromie di Gauguin.
Anton Giulio Bragaglia ricorda, in un articolo del 1925, la
scoperta delle sue doti artistiche: “Walcot, che viveva a Roma, si attardava un
giorno in pose su pose, non riuscendo a finire un suo quadro, il cui soggetto
era proprio Deiva con una sua compagna modella. Difficile da ritrarre era
quell’amica! Ma il pittore uscì per un momento e Deiva preso il carbone terminò
la figura della compagna. Quando Walcot, tornando, vide, restò come trasognato.
Da quel giorno Deiva fu pittrice.”
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William Walcot |
Quando la loro storia finisce Deiva torna a Roma.
Passo pochi mesi, e non si sa come, conosce e poi sposa l'avvocato pugliese
De Angelis, del quale non si è saputo altro che poche riferimenti professionali,
dal quale si separerà molto presto, forse per la morte di lui come a qualcuno
pare di ricordare. Lei, però, non rinuncerà mai a quel cognome, che diventerà
da allora la sua firma, Deiva de Angelis.
Forse anche solo per mantenere l’unica cosa certa della propria vita.
A Roma, dove era stata modella, si presenta questa volta come pittrice e
nel 1913 inizia a frequentare l'ambiente artistico più avanzato della capitale.
sino a incontrare Cipriano Efisio Oppo, pittore, disegnatore, illustratore
satirico, organizzatore di eventi artistici (sarà proprio lui a inventarsi la
Quadriennale). Nonostante la giovane età è già affermato e in contatto con gli
artisti secessionisti residenti nella villa Strohl-Fem, dove egli stesso ha lo
studio, e dove lei andrà a vivere con lui in una piccola casetta di legno
rimasta ancora oggi unica superstite delle casette per artisti.
E’ il momento d’oro per quel luogo magico affacciato su Villa Borghese,
voluto da un ricco mecenate, che vedrà nascere la Scuola Romana, e dove operano Alberto Ziveri, Armando Spadini,
Francesco Trombadori, Carlo Socrate e dove lei si lega di amicizia a
Pasquarosa. Una ragazza di campagna come lei, trasformatasi anche lei da a
pittrice di grande qualità dopo essersi legata al pittore Nino Bertoletti.
Tra il marzo e il giugno di quell’anno, si tiene la prima Esposizione
Internazionale d’arte della “Secessione” al Palazzo delle Esposizioni con la
volontà di mostrare, anche se in ritardo le nuove istanze dell’arte
contemporanea europea. Alla mostra furono esposte opere di avanguardia di
Matisse, Van Dongen, Manet, Monet, Renoir, meno recenti ma comunque
significative per lo scenario italiano. La vetrina era importante e Deiva
presenta il dipinto Studio d’uomo,
entrando nel “salotto buono” dell’arte nazionale. Da quel momento partecipa a
tutte le altre manifestazioni della Secessione, fino all’ultima edizione,
quella del 1916.
Deiva continuò a consolidare la sua ricerca cromatica, affine a “Lo
Spirituale nell'Arte”, famoso e decisivo libro teorico di Kandinsky che
analizza le pulsioni etiche dell’atto creativo: “…una gran massa di persone superficialmente
dotate si butta sull'arte, che sembra così facile” scrive Kaninsky “In ogni
Centro Artistico vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei
quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d'arte col cuore
freddo e l'anima addormentata…”
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Cipriano Efiso Oppo in un autoritratto del 1925 |
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La carriera di Deiva De Angelis proseguì con successi e mostre
significative: le Biennali romane del
’21, del ‘23 e del ’25, altre collettive nella Casa d’Arte di Bragaglia che gli
fu sempre vicino, l’Exposition Internationale d’Art Moderne a Ginevra,
1920-1921. Dipinti, come ha scritto Vivaldi, che testimoniano di una
"personalità d'eccezione assolutamente in anticipo sulla cultura romana e
italiana dell'epoca, caratterizzata da un espressionismo stralunato, elettrico
nel colore come nel segno guizzante."
Nel 1918 o poco prima lascia Oppo. Alcune lettere di amici comuni fanno
riferimento a una gravidanza non voluta (da lui) che nel pieno della sua
affermazione professionale non vuole ostacoli. Una scelta che, probabilmente,
la ferirà profondamente.
Come sempre i dubbi vincono sulle certezze.
Sappiamo però che non molto tempo dopo si legherà al pittore e
cartellonista Giuseppe (Bepi) Fabiano, che sposerà poco prima di morire, e del
cui rapporto si sa comunque ben poco e inizia a sprofondare in una dipendenza
alcolica, dalla quale forse dipenderà l’aggravarsi del suo stato di salute.
ldo Di Lea pubblicò sul numero di gennaio del 1921 di Cronache d'attualità un articolo monografico con la riproduzione
dell'Autoritratto con sigaretta, il
dipinto forse più famoso, tra i pochi noti, per la provocazione e irritualità.
Deiva amava infatti andare in giro con abiti maschili, cogliendo la moda e la
irritualità che la moda androgina aveva portato in quegli anni in Europa, ma
che a Roma, non era facile vedere. Il critico, riportando che la pittrice aveva
lo studio a via Angelo Brunetti al 35, vicino a Piazza del Popolo, dà di lei
una descrizione molto colorita: "...nella persona e nei modi, nei pensieri
e nel movimento vivido delle frasi ho ritrovato la pittrice con le sue
esuberanze e le sue audacie... in questa artista che ha l'aria d'essere
l'antesignana di chissà quale bolscevismo pittorico devastatore e sovvertitore,
la pioniera d'un avanguardismo erostratico negatore d'ogni e qualsiasi canone
d'arte antica e accettata, e bestemmiatore d'ogni catechismo pittorico, c'è
invece un religioso quasi feticistico amore per la linea pura del disegno per
la salda compagine del dipinto". E dei suoi nudi dice: "...sotto
quella dovizia di colori, sotto quella ostentazione di s'enfichisme per tutto ciò che potrebbe parere savia norma
tradizionalistica, ... una salda impostazione preparativa, il lucido proposito
d'una coscienza matura e perspicace che sa distribuire con accorgimento le
luminescenze del colore...".
Ed ecco che le fasi finali di un decadimento fisico e mentale che recupero
ancora una volta dal sito di toponomastica: “La solitudine la accompagnò per molti tratti della vita, nonostante lo
scambio artistico e culturale con numerose persone e gli amori vissuti. Essere
pittrice comportava rinunce, prevedeva ostacoli, determinava una celebrità
effimera raggiunta attraverso percorsi tortuosi. Il suo destino, difficile fin
dalla nascita, continuò ad accompagnarla e la aggredì con una malattia che non lasciò
scampo: un tumore, forse all’intestino, che la fece soffrire molto e che la
divorò in breve tempo. Deiva fu costretta a vendere – o meglio svendere – i
suoi quadri per comprare le medicine che, se non riuscirono a combattere il
cancro, le diedero un po’ di tregua dal dolore”.
Si tratta di opere realizzate su materiali di fortuna, cartoni, tavolette
di recupero, figlie della sua complicata situazione economiche, molte delle
quali probabilmente attribuite nel tempo ad altri artisti. Quasi sempre fiori,
nell’ultimo periodo, quasi a voler chiudere il cerchio e la parabola di quella
ragazza che, una volta, vendeva le violette a Piazza di Spagna.
Morì, secondo le fonti e le scoperte più aggiornate, il 24 febbraio del
1925, poco tempo dopo aver esposto alla Terza Biennale Romana – Mostra
Internazionale di Belle Arti. Aveva circa 39 anni.
Anche per la morte non esistono documenti certi. Fu tumulata in un loculo
pagato dallo Stato del quale si è persa ogni traccia.
Di lei sono rimaste poche opere, un paio delle quali di proprietà del grande storico dell’arte Roberto Longhi, che le fu amico e che le fu vicino quando morì la madre della donna, che Deiva aveva fatto venire dalla campagna e che, spaventata dai rumori della città, non metteva il naso fuori di casa.
Grazie alle ricerche di Lucia Fusco che
per realizzare la sua tesi di storia dell’arte ha tolto l’oblio sul suo nome e
che poi ha sempre approfondito la sua ricerca con nuovi dettagli e scoperte è
stato prodotto il documentario “Deiva”, realizzato dal giornalista Gianluca
Sannipoli con la collaborazione di Cesare Coppari. E forse, magari grazie a
qualche lettore, come i tasselli di un mosaico, ne sapremo di più e recupereremo
opere smarrite come messaggi nella bottiglia.