UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


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mercoledì 14 settembre 2016

HELMAR LERSKY. IL SIGNORE DEGLI SPECCHI.

 


Nel 1937 Helmar Lersky si trova in Palestina, poi, spiegheremo il perché. Sono anni che studia da fotografo e operatore cinematografico gli effetti e le aberrazioni visive della luce sul corpo e sulle forme. Luce che in quel luogo sicuramente non manca, ma che lui continua ad amplificare e a distorcere mediante l’utilizzo di specchi e lamine metalliche riflettenti.

Un giorno ha un’idea. Prende un modello, un quarantenne dal volto anonimo e un po’ rude, lo porta sul tetto di casa, dispone una serie di specchi e inizia a scattargli foto in primissimo piano, così ravvicinate da mostrare persino i difetti della pelle e l’umidità del sudore che traspare dopo le lunghe ore di shooting.

Ogni volta cambia l’inclinazione della luce diretta del sole, indirizzando il riflesso sul volto, modificando ombre ed effetti. Nascono così 175 immagini del ciclo Verwandlungen durch Licht (Trasformazioni attraverso la luce), ognuna delle quali diversa dalle altre, nella quale il soggetto inizia via via ad assumere identità diverse. Ora è un eroe, un profeta, un contadino, un soldato morente, una donna anziana, una maschera mortuaria, un monaco. Forse sono le stesse identità del soggetto che, liberate, prendono finalmente forma, o è solo quello che noi crediamo di vedere, o forse è ciò che l’uomo sarebbe potuto essere.

Nasce così un’opera che diventa letteratura visiva che sarà apprezzata soprattutto dopo la guerra.




Helmar Lerski (1871-1956) era nato in Alsazia, a Strasburgo, allora parte della Germania, come Israel Schmuklerski. I suoi genitori sono ebrei polacchi che, poco dopo, ottenuta la cittadinanza svizzera emigrano nuovamente a Zurigo, città nella quale Helmar termina gli studi superiori, ma che poi decide di abbandonare. A soli 22 anni Israel, appassionato di teatro, decide infatti di trasferirsi a New York per tentare di lavorare come attore, tanto da modificare il proprio nome, assolutamente impronunciabile per il pubblico americano. Ribattezzatosi Helmar, trascorre così diversi anni in una compagnia teatrale tedesca girando la costa est degli States, sino a incontrare la sua futura moglie. Lei ama fotografare, anche a livello professionale, e lui, a mano a mano, ne rimane folgorato. Più dalla fotografia che da lei, in effetti.




A partire dal 1911-1912 Lerski rimane affascinato soprattutto dalla potenzialità delle nuove tecniche di illuminazione, e inizia a realizzare foto di scena e ritratti colleghi attori, valorizzando proprio come “effetto teatrale” la sia passione da ragazzo.

Le sue opere vengono notate da un noto fotografo di Amburgo, Rudolph Dührkoop, che era venuto a St. Louis per dimostrare le sue tecniche fotografiche, che lo incoraggia a proseguire nella ricerca. Helmar rinuncia a fare l’attore e abbina il lavoro in camera oscura con quello di insegnante d lingua e letteratura tedesca presso l'Università del Texas a Austin.

Nel 1915, dopo più di venti anni in America, Lerski trasferisce a Berlino, e dopo aver mostrato i suoi ritratti, viene assunto come cameraman alla Universum Film Aktiengesellschaft (studi UFA) di Monaco di Baviera, dove lavora come cameraman e esperto di effetti speciali per molti pellicole. UFA sono tra gli studi più moderni e potenti del mondo. Inizia un percorso che dura quindici anni che, lo porteranno a essere direttore tecnico presso la Deutsche Spiegeltechnik GmbH & Co, sino a collaborare al film dei film: “Metropolis” di Fritz Lang (1927). Insieme al direttore della fotografia tedesco Eugen Schüfftan viene sviluppato un sistema di specchi, fondali dipinti ed elementi 3D capaci di creare l'illusione della profondità, con  attori che interagiscono con enormi set realistici.

Il sistema, che prenderà nome di Effetto Schüfftan, raggiungerà livelli di perfezione che verranno emulati solo 35 anni dopo. Altra grande innovazione sarà quella dell’utilizzo del “passo uno“, tecnica estremamente difficile che consisteva nel produrre registrazioni per singoli fotogrammi, con l’inconveniente di dover poi riavvolgere la pellicola ogni volta per filmarci sopra una seconda volta.



In paralllelo alla sua attività cinematografia Helmar pubblica nel 1931 Köpfe des Alltags (volti di tutti i giorni), una serie di ritratti di personaggi della classe operaia.

Uno studio che punta a ricercare le caratteristiche archetipe dei modelli, in luogo dello studio della loro psicologia, in una ricerca curiosamente parallela a quella dell’altro catalogatore visivo August Sander che sta sviluppando l’opera ecniclopedica Menschen des 20. Jahrhunderts (Uomini del XX secolo), una sorta di censimento degli umani, pietra miliare della ritrattistica di tutti i tempi.

Ricerca che verrà ripetuta nel tempo, accanto a studi come Volti di arabo, Metamorphosen, Mani al lavoro, che fanno pensare al lavoro fotografico di Aleksandr Rodčenko, che proprio in quegli anni, in Russia, stava dando prova dell’importanza dell’immagine ad uso propagandistico e politico. E non è certo un caso che il ciclo “soldati ebraici” viene prodotto per la mostra Lavoro e Guerra organizzata dal Museo di Tel Aviv del 1943.

Dopo l’acuirsi di atti di intolleranza delle poltica antisemita, Helmar dopo il 1935 ha infatti abbandonato la Germania, dove gli sarebbe stato comunque impedito di lavorare, per recarsi in Palestina con la sua seconda moglie, guadagnandosi da vivere come cameraman e regista di documentari.

Dopo la guerra, a 78 anni, torna in Europa, a Zurigo, dove rimarrà sino alla morte.


Autoritratto negli occhi del modello, 1930

Autoritratto, Tel Aviv, 1936


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