Nel
1937 Helmar Lersky si trova in Palestina, poi, spiegheremo il perché. Sono
anni che studia da fotografo e operatore cinematografico gli effetti e le
aberrazioni visive della luce sul corpo e sulle forme. Luce che in quel luogo
sicuramente non manca, ma che lui continua ad amplificare e a distorcere mediante
l’utilizzo di specchi e lamine metalliche riflettenti.
Un
giorno ha un’idea. Prende un modello, un quarantenne dal volto anonimo e un po’ rude, lo porta sul tetto di casa, dispone una serie
di specchi e inizia a scattargli foto in primissimo piano, così ravvicinate da
mostrare persino i difetti della pelle e l’umidità del sudore che traspare dopo
le lunghe ore di shooting.
Ogni
volta cambia l’inclinazione della luce diretta del sole, indirizzando il
riflesso sul volto, modificando ombre ed effetti. Nascono così 175 immagini del
ciclo Verwandlungen durch Licht (Trasformazioni
attraverso la luce), ognuna delle
quali diversa dalle altre, nella quale il soggetto inizia via via ad assumere
identità diverse. Ora è un eroe, un profeta, un contadino, un soldato morente,
una donna anziana, una maschera mortuaria, un monaco. Forse sono le stesse
identità del soggetto che, liberate, prendono finalmente forma, o è solo quello
che noi crediamo di vedere, o forse è ciò che l’uomo sarebbe potuto essere.
Nasce
così un’opera che diventa letteratura visiva che sarà apprezzata soprattutto
dopo la guerra.
Helmar
Lerski (1871-1956) era nato in Alsazia, a Strasburgo, allora parte della
Germania, come Israel Schmuklerski. I suoi genitori sono ebrei polacchi che,
poco dopo, ottenuta la cittadinanza svizzera emigrano nuovamente a Zurigo,
città nella quale Helmar termina gli studi superiori, ma che poi decide di
abbandonare. A
soli 22 anni Israel, appassionato di teatro, decide infatti di trasferirsi a
New York per tentare di lavorare come attore, tanto da modificare il proprio
nome, assolutamente impronunciabile per il pubblico americano. Ribattezzatosi
Helmar, trascorre così diversi anni in una compagnia teatrale tedesca girando
la costa est degli States, sino a incontrare la sua futura moglie. Lei ama
fotografare, anche a livello professionale, e lui, a mano a mano, ne rimane
folgorato. Più dalla fotografia che da lei, in effetti.
A partire dal 1911-1912 Lerski rimane affascinato soprattutto dalla
potenzialità delle nuove tecniche di illuminazione, e inizia a realizzare foto
di scena e ritratti colleghi attori, valorizzando proprio come “effetto
teatrale” la sia passione da ragazzo.
Le
sue opere vengono notate da un noto fotografo di Amburgo, Rudolph Dührkoop, che
era venuto a St. Louis per dimostrare le sue tecniche fotografiche, che lo
incoraggia a proseguire nella ricerca. Helmar rinuncia a fare l’attore e abbina
il lavoro in camera oscura con quello di insegnante d lingua e letteratura
tedesca presso l'Università del Texas a Austin.
Nel
1915, dopo più di venti anni in America, Lerski trasferisce a Berlino, e dopo
aver mostrato i suoi ritratti, viene assunto come cameraman alla Universum Film Aktiengesellschaft (studi
UFA) di Monaco di Baviera, dove lavora come cameraman e esperto di effetti
speciali per molti pellicole. UFA sono tra gli studi più moderni e potenti del
mondo. Inizia un percorso che dura quindici anni che, lo porteranno a essere direttore
tecnico presso la Deutsche Spiegeltechnik GmbH & Co, sino a collaborare al
film dei film: “Metropolis” di Fritz Lang (1927). Insieme al direttore della
fotografia tedesco Eugen Schüfftan viene sviluppato un sistema di specchi,
fondali dipinti ed elementi 3D capaci di creare l'illusione della profondità,
con attori che interagiscono con
enormi set realistici.
Il
sistema, che prenderà nome di Effetto
Schüfftan, raggiungerà livelli di perfezione che verranno emulati
solo 35 anni dopo. Altra grande innovazione sarà quella dell’utilizzo del “passo uno“, tecnica estremamente
difficile che consisteva nel produrre registrazioni per singoli fotogrammi, con
l’inconveniente di dover poi riavvolgere la pellicola ogni volta per filmarci
sopra una seconda volta.
In paralllelo alla sua attività cinematografia Helmar pubblica nel 1931 Köpfe des Alltags (volti di tutti i
giorni), una serie di ritratti di personaggi della classe operaia.
Uno
studio che punta a ricercare le caratteristiche archetipe dei modelli, in luogo
dello studio della loro psicologia, in una ricerca curiosamente parallela a
quella dell’altro catalogatore visivo August Sander che sta sviluppando l’opera
ecniclopedica Menschen des 20.
Jahrhunderts (Uomini del XX secolo), una sorta di censimento degli
umani, pietra miliare della ritrattistica di tutti i tempi.
Ricerca
che verrà ripetuta nel tempo, accanto a studi come Volti di arabo, Metamorphosen, Mani al lavoro, che fanno pensare al
lavoro fotografico di Aleksandr Rodčenko, che proprio in quegli anni, in
Russia, stava dando prova dell’importanza dell’immagine ad uso propagandistico
e politico. E non è certo un caso che il ciclo “soldati ebraici” viene prodotto
per la mostra Lavoro e Guerra organizzata
dal Museo di Tel Aviv del 1943.
Dopo
l’acuirsi di atti di intolleranza delle poltica antisemita, Helmar dopo il 1935
ha infatti abbandonato la Germania, dove gli sarebbe stato comunque impedito di
lavorare, per recarsi in Palestina con la sua seconda moglie, guadagnandosi da
vivere come cameraman e regista di documentari.
Dopo
la guerra, a 78 anni, torna in Europa, a Zurigo, dove rimarrà sino alla morte.
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Autoritratto negli occhi del modello, 1930 |
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Autoritratto, Tel Aviv, 1936 |