C’è
una sottile linea che unisce spazzatura e arte. Forse perché agli occhi di
artista ciò che gli altri buttano, può diventare un oggetto denso di
significati, o meglio, "significante". Specchio di una identità sociale, di una storia, o semplice elemento
estetico. Robert
Rauschenberg o Kurt Schwitters, ad esempio, hanno voluto trasformare i rifiuti
in opera d’arte, e non è raro incontrare artisti con la passione per accumulazioni
compulsive o collezioni. Rembrandt aveva iniziato una Wunderkammer, stanza delle meraviglie, che riempì sino
all’inverosimile, ma che poi fu costretto a vendere quando cadde in difficoltà
economiche.
Andy Wharol produsse negli anni le mitiche “capsule del tempo”: 600 scatoloni
in cui l'artista, fin da giovanissimo, impacchettò, numerò e ripose tutti gli
oggetti che lo colpivano e affascinavano, e da cui non voleva separarsi,
fossero una rivista di enigmistica, una busta di pepe o la macchinina di
plastica di un bambino ritrovata per terra. Anche Stanley Kubrick conservava
tutti i materiali di studio dei suoi film con maniacale attenzione, dagli
appunti alle schede delle location, arrivando addirittura disegnare e a far
produrre da un artigiano il modello delle 400 scatole di cartone che avrebbero
conservato il tutto (avventura psicoanalitica ben raccontata da uno splendido documentario
di Jon Ronson, “Stanley Kubick Boxes”). Io
stesso tanti anni fa mi ritrovai nello studio-abitazione di Emidio Antoci,
pittore romano di talento, nipote dei Vangelli e erede di una stirpe di pittori.
Personaggio affabulatore e talentuoso, con lo stesso cappello a larghe tese di
Fellini, che occupava un palazzo noto a tutti i romani, a Trastevere, dal cui
balcone pendevano un centinaio di bambole. La casa era come quelle che si
vedono ora in un format Sky, un enorme cumulo di “cose”, tra le quali
emergevano opere originali di grande qualità, realizzate “alla maniera degli
antichi”. C’era anche un cane, che infilatosi sotto il letto venne poi tirato
fuori per la coda, mentre stringeva tra i denti un fagotto verde di muschio.
Mentre Emidio, con tono da nobile annoiato, accompagnando la frase con un vago
gesto della mano, esclamava sorpreso: “Toh!…una
torta. Vecchia…”
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la casa di Emidio Antoci a Trastevere |
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la casa di Emidio Antoci a Trastevere |
Destino
esemplare in questo contesto, la storia dello studio londinese di Francis
Bacon. Uno
straordinario accumulo di spazzatura, fotografie, fogli, ovatta,
carboncini profilattici, grumi di colore, resti di cibo, che per decenni
accumulò, sino a sollevare letteralmente di molti centimetri il livello del
pavimento. Una stratificazione temporale che ricorda il sottosuolo di Roma e che
accompagnò il lento distacco di Francis dalla realtà. Un personaggio avvolto
nel mito, che si diceva si lavasse i denti con il Vim e indossasse, sotto
ai pantaloni neri, calze a rete e biancheria intima femminile.
7000 oggetti catalogati, oggi spostati con cura maniacale e filologica, polvere
compresa, dal compagno di Bacon a Dublino, dove lo studio è stato ricostruito
da restauratori, con un investimento di 1,5 milioni di sterline. Questo
interessante articolo di Carla Briganti, ci racconta come è andata e cosa ha
significato, alla luce anche di recenti studi:
Quando, circa 10 anni fa, il
contenuto dello studio londinese di Francis Bacon fu trasportato in blocco a
Dublino, la maggiore difficoltà consistette nel preservare la polvere che vi
regnava sovrana. Il resto - un fantastico accumulo di spazzatura e
testimonianze preziose: carte, fotografie, ritagli, bottiglie di champagne
vuote, multiformi contenitori di pittura (tubetti, pastelli, barattoli,
bombolette) mescolati a scatole di conserva, pennelli, libri, stracci, tele
squarciate, dischi, attrezzi, spugne e vestiti vecchi; in totale più di 7000
oggetti - fu rilevato, catalogato, mappato con cura maniacale e ricostruito in
maniera identica alla Hugh Lane Gallery. Un´operazione da un milione e mezzo di
sterline, durata mesi. Solo per trasportare il tavolo e quanto vi era
accatastato furono necessarie 8 settimane. In quanto alla polvere, la
preziosa polvere accumulatasi per tre decenni, fu impacchettata,
etichettata «Bacon´s Dust» e ridistribuita con cura sul tappeto impastato di
pigmenti che copre il pavimento nella nuova sede, ricreando la materia viscida
e multicolore che ai rari visitatori richiamava il compost, il terriccio
fertile rigenerato dalla decomposizione di materiali organici.
Per trent´anni il piccolo edificio al 7 di Reece Mews era stato abitazione e
laboratorio, rifugio di un solitario e sede di una corte bislacca e ambigua,
formata da artisti, mercanti, critici ma anche ragazzi di vita, ladruncoli,
spacciatori. Una corte che ruotava intorno ad uno dei massimi artisti del
secolo. Esservi ammesso era un´esperienza straordinaria. Per arrivarvi ci si
arrampicava su una scala talmente stretta e ripida che i quadri che uscivano
dallo studio venivano immancabilmente graffiati ai bordi. Una corda faceva da
corrimano, testimonianza della modestia della sistemazione: un tempo i mews
erano usati come rimesse e alloggi per cocchieri. Il piano
superiore, ospitava una camera da letto scenograficamente melodrammatica -
velluti, coperte damascate - e un bagno che fungeva da cucina, ingombro di
biancheria stesa e di padelle rigurgitanti di pigmenti.
Bacon vi era arrivato nel 1961 dopo un lungo pellegrinare per Londra. Tentativi
falliti lo avevano portato dall´East End (troppo squallida), ai bordi del fiume
(troppa luce) fino a quartieri borghesi (troppo noioso). A Kensington si era
subito sentito a proprio agio e lo studio divenne il solo punto fisso di una
vita complicata. Il caos ne era parte integrante. «Mi sento a casa nel caos»,
diceva, «perché il disordine suscita delle immagini, ad ogni buon conto mi
piace, potrebbe essere lo specchio di quello che avviene nella mia mente».
Nella stanza la luce proveniva dal soffitto, riverberata da un grande specchio
rotondo, rotto e consumato, che dominava la parete di fondo. Uno specchio nero,
simile ad uno strumento divinatorio, che sottolineava la qualità di antro
magico. Bacon
lavorava solo la mattina, nella più assoluta solitudine, come uno sciamano,
compiendo gesti istintivi e spesso violenti. La pittura veniva scaraventata
sulle tele, soffiata o sputata insieme all´alcol, graffiata con gli oggetti
più disparati, scope, pettini e spezzoni di bottiglia, oppure strofinata con
stracci, brandelli di pantaloni, vecchi golf di cachemire. C´era
nella violenza del gesto, nella ricerca del mezzo, un aspetto
erotico che all´artista era evidente. Blowjobs, chiamava alcuni
dei suoi interventi sulla tela.
Autodidatta, la sua sperimentazione con il materiale pittorico era virtualmente
infinita. Passava dai pastelli alla vernice per automobili, dall´ovatta alla
polvere raccolta dal pavimento e impastata col colore per rendere la morbidezza
della flanella in un ritratto, a sabbia e terra spalmate sul quadro per
raffigurare appunto terra e sabbia. La tela spesso era usata a rovescio, dal
lato grezzo, proprio per sfruttarne tessitura e granulosità.
È significativo che, tra le migliaia di oggetti raccolti e catalogati dagli
archeologi, veri professionisti dello scavo, incaricati del trasloco dello
studio, non sia stata rinvenuta neppure una tavolozza. In compenso muri, porte
e ogni superficie erano impastati di colore, e marcati da gesti di forza. Il
grande specchio rotondo era stato rotto nel corso di una rissa. Spesso lo
studio era occupato da gruppi di ragazzi di vita; in loro presenza
l´accoglienza agli estranei poteva diventare difficile, aggressiva, sia
verbalmente che fisicamente. Incombeva la sensazione di un gioco perverso con
forze oscure e pericolose. Talvolta Bacon lasciava in giro fasci di banconote,
che regolarmente sparivano, una prova soddisfacente del marcio che vedeva nei
suoi compagni e, con orgoglio, in se stesso.
La scelta fatta dal suo erede di donare il contenuto dello studio alla città di
Dublino, rappresenta modo una sorta di riconoscimento postumo all´infanzia
dell´artista. Dublino era la città in cui, nel 1909, Bacon era nato. La sua
famiglia era inglese, numerosa e borghese. Il padre allevava cavalli da corsa e
con lui Francis entrò in rotta di collisione. Fu un rapporto di odio, amore e
attrazione sessuale che per tutta la vita pesò sulla sua psiche. Secondo una
storia ormai leggendaria fu cacciato di casa a 16 anni é scoperto ad indossare
la biancheria intima della madre. Fatto frustare dagli stallieri, finì col
trasformare la punizione in un´epifania erotica. Delle sue tendenze omosessuali
e sadomasochistiche non fece mai mistero. Del suo strano e anticonvenzionale
narcisismo neppure. Sotto i pantaloni strettissimi ed il sempiterno giubbotto
di cuoio nero, cimelio giunto a Dublino insieme al materiale dello studio,
indossava a quanto pare calze a rete e biancheria femminile. Il volto, forse
liftato, era pesantemente imbellettato, i capelli tinti con il lucido da scarpe
e i denti, sempre secondo la leggenda accuratamente coltivata dell´artista
maledetto e fuori da ogni schema, lavati col vim.
Questa era la mitologia che aureolava Francis Bacon. Ne facevano parte
l´aneddotica sul suo passato, gli amori tragici, le frequentazioni losche. Da
questo punto di vista lo studio di Reece Mews (autrice di uno studio analitico
su questo materiale n.d.r.), così come la Conversazione con Bacon, sono
profondamente rivelatori della vera essenza del suo operato. O forse no. Le
tracce, le stropicciature, gli sfregi che segnano le foto che a centinaia si
accumulavano sul pavimento dello studio potrebbero testimoniare un gesto, un
intervento, un interesse, oppure la più assoluta casualità. Le parole riportate
potrebbero essere verità o sottile provocazione. Studiosi e ricercatori hanno a
disposizione materiale per interrogarsi sui meccanismi di creazione di un genio
che fu un uomo profondamente tormentato e infelice.