UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


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venerdì 21 gennaio 2011

PIETRO MELECCHI. IL FOTOGRAFO PITTORE.

A ben vedere l’Italia non ha avuto nel mondo della fotografia maestri dell’astrattismo. O forse sì. E può suonare strano ammettere che il maggiore fra tutti fotografi è stato un pittore: Pietro Melecchi, nato nel 1902 a Castelfranco Emilia, vissuto a Bologna dal 1903, trasferitosi a Roma nel 1927 per esercitare la professione di architetto. Un personaggio che a vederlo ricordava Gillo Dorfles e Montanelli, elegante, stempiato, sempre un po’ accigliato, che per poter seguire, libero da compromessi, la sua vocazione artistica, abbandona la professione di progettista e si dedica all'insegnamento.
Con quella testa lucida (in tutti i sensi) ha attraversato le diverse fasi del modernismo (partecipando a più Quadriennali, al Premio Marzotto, alla Selezione Esso) per poi approdare alla fotografia. Un gioco di luci e di richiami, di forme e suggestioni che ha come riferimento naturale Man Ray e  le visioni dell’arte cinetica degli anni ’70. Ma anche il rigore si un suo quasi omonimo: Fausto Melotti. E’ morto a Roma nel 1996.
Man Ray


domenica 16 gennaio 2011

LA TRADIZIONE ITALIANA DI IGNAZIO DI STEFANO.



Questo ritratto a china, della fine degli anni ’40, riassume in sé la visione, la cultura e le contraddizioni del modernismo italiano. Un segno, appunto “moderno”, che potrebbe competere con la coeva esperienza di Oscar Kokoschka, ma che a differenza dei pittori “del nord” capaci di rompere con la tradizione fa trasparire un continuo riferimento alla tradizione classica italiana. Nella postura, nella forma e nel contenuto. Alla ritrattistica cinquecentesca, agli schizzi su carta dei pittori veneti, che utilizzano la guazza per creare spettacolo, atmosfera, psicologie. Un archetipo che ritorna nel soggetto scelto: una figura maschile reclinata, pensante, appena accennata nei lineamenti, forse assopita. O forse immersa in una visione interiore. Ed è in questo che Italia e Europa si confrontano senza mai trovarsi veramente e che il nostro provincialismo diviene DNA, ma anche l'elemento distintivo che permette di crescere e rigenerarsi in continuazione. Perchè è difficile sapere dove si va se non ci capisce da dove si viene,
Oscar Kokoshska, 1946
E’ negli anni ’50 che si compirà la parabola artistica di Ignazio Di Stefano. Finalista al Premio Marzotto, Quadriennale del 1955-56, Biennale. 
Poi, il boom economico e l'astrattismo gli toglierà la capacità di far sognare. Ma questo, il sognatore di questo schizzo, ancora non lo sa.

SEBASTIANO CARTA. FUTURISTA ESPRESSIONISTA. POETA VISIVO.

“Noi siamo perversi, o illusi incantati, o deserti. 
Sono solo. 
Dipingere è un togliersi di mezzo”. 
Sebastiano Carta


Me lo ricordo, quando ero bambino, in via Chiana, a Roma, angolo via Volsinio. Fumava, e parlava praticamente da solo con un lungo cappotto scuro e i capelli bianchi e lunghi mossi dal vento e uno strano berretto da un lato. Poi una volta finito di fumare, continuando a parlare con mio padre, che lo conosceva da sempre, iniziò con la cicca a disegnare sul muro di granito del palazzo una faccia stralunata che a me sembrava quella di un nano con un cilindro.
Poi prese da terra un pezzetto di qualcosa e disegnò in alto una stella cometa, scrisse una cosa tipo “FIUUUUUUU!”, e mi sorrise, come se mi avesse regalato l’intera parate.
Era quasi Natale e quello era un Re Mago. E quel giorno gli scappava di disegnare, a Seb, come in trance.

Ecco. Ci sono persone a cui le cose vengono tutte facili. Altre che, per destino, o forse per scelta in/consapevole, sono costrette a lottare tutta la vita per vedere riconosciuto non solo il proprio valore e il proprio talento, ma anche la propria storia. Come Sebastiano Carta pittore e poeta, tra una sigaretta, un bicchiere condiviso con gli amici, e mille disegni lasciati sulla via. E in questo la memoria digitale spesso aiuta, perché porta a ritrovare frammenti dispersi, che magicamente possono ricomporsi e ridare vita a un volto, a un quadro, a una storia.
Forse anche questo è stato il suo destino, un futurista della prima ora, uno di quelli che Marinetti chiamò "...uno dei miei ascari più audaci...", troppo spesso ignorato nelle grandi rassegne dedicate al movimento. E ancora molto tempo ci vorrà prima di rivedere ristampate le sue fantasmagoriche composizioni poetiche proseguite sino agli anni ’70 che lo pongono tra i precursori della poesia visiva in Italia. E di ritrovare, e storicizzare, molte delle sue opere dei primi anni, oggi di difficile reperibilità, dove sperimenta ad esempio la macchina da scrivere per realizzare immagini in un percorso visivo molto vicino a quello di Bruno Munari.

Nato il 4 Marzo 1913 a Priolo, in Sicilia, arriva a Roma dopo il trasferimento del padre, poliziotto, per stabilirsi al quartiere Trieste. Figurarsi come il padre come la prese quando seppe che suo figlio si era messo in testa di voler fare il poeta e il pittore. Tanto che, ventenne, va a far leggere le sue rime a Filippo Tommaso Marinetti che apprezza il suo scritto “Sistemazione Fisica” e lo coinvolge subito nel gruppo romano “…la poesia Parolibera, sintetica, astratta, frenetica, al Punto da sembrare disperata…

Già nel 1933 partecipa alle Parole Libere, legandosi a Carlo Belli e ai fratelli Bragaglia per poi entrare negli anni '40 nel Gruppo comasco futurista dei Valori Primordiali. NeI 1944, a Via Lariana, la casa di famiglia, fonda la “Casa Rossa”, gruppo di cultura antiborghese soprannominato l’Antisalotto Bellonci, che vede transitare Stradone, Ungaretti, Dorazio, Zavattini, Guttuso, legandosi poi di amicizia con Roberto Melli, Mazzullo e Antonio Marasco che, come lui, hanno scelto Roma come nuova città di elezione.
E con Guttuso, che è suo conterraneo e ha appena due anni più di lui, che è tornato a Roma dopo il settembre del 1944 superando a piedi la Linea Gotica, per attivare stremati e affamati a casa della madre di Sebastiano al quartiere con i pantaloni rattoppati, accolti come eroi.

Da quel momento la sua figura diventa sempre più autonoma e la sua pittura sempre più personale. Egli vaga nei suoi pensieri, sfiorando il surrealismo, esplorando gli angoli più misteriosi dell’espressionismo. E’ uno dei quegli autori che, quando conosci le sue opere, le riconosci sempre. E le riconosci subito. Dipinge e disegna su qualsiasi foglio con qualsiasi materiale e con qualsiasi tecnica arricchendo la composizione con parole e poesie. Tante volte, troppe volte, anche con feltro e pennarelli, tecnica che esposta alla luce, oggi svanisce, come il suo ricordo, azzerando molta della sua ultima produzione. Regalava i suoi disegni con la stessa facilità con la quale poteva arrabbiarsi se una cosa non gli andava a genio. Lo hanno anche truffato, come mi ha raccontato la figlia, quando vendette le sue opere in blocco a un gallerista, che non lo pagò mai e che probabilmente le ha svendute e disperse.
 
 
Autoritratto
Sebastiano Carta in un ritratto di Gianni Berengo Gardin


Ha partecipato a due Quadriennali, sviluppando una pittura diversa da tutti i suoi amici e compagni di viaggio alcuni spariti, come Guttuso, ormai troppo glamour per frequentarlo ancora.
Trova un impiego alla Banca d’Italia, che gli garantisce stabilità e inizia a esplorare sin dagli anni '50 un astrattismo concettuale che lo porta più vicino alla Bauhaus che alla pittura italiana, spesso sconfinando in area espressionista. Con un approccio al lavoro quasi da street artist ante litteram, tanto che lo scrittore Cesare Zavattini scriverà: "…quando stende davanti ai suoi amici i grandi fogli di pittura, si ricomincia ad amarlo e a stimarlo. Ci aggiriamo attorno a questi fogli, come alle figure che i pittori ambulanti fanno sui marciapiedi…”. Un percorso da cavaliere solitario, in seguito aggravato da difficoltà economiche.

La figlia Elisabetta, nel bel libro di memorie “Cuore di Scimmia”, scritto come per molti figli d’artista, per indagare ed esorcizzare il suo rapporto con il padre, così scrive: Da piccola credevo che Sebastiano fosse un orco, come quello delle favole, che mi era toccato per padre. La cosa non mi dava molto pensiero, sia perché ero così abituata all’atmosfera delle favole da confonderle con la realtà, sia perché gli orchi non erano poi così cattivi, tant’è vero che spesso si redimevano, come quello de La bella e la bestia o come il rospo che poi diventava principe. Pensavo che tutti ce la potessero fare a vincere la propria natura oscura, e quindi anche a lui davo una possibilità…”.

Colpito da ictus alla Montagnola dove abitava con la moglie nel 1973, e dove veniva chiamato “er pittore”, morirà tre giorni dopo a Roma, ad appena 60 anni.


 
Autoritratto, 1939

"
Sebastiano Carta nel 1940, ritratto di Roberto Melli

...
Sebastiano Carta, Opera anni '30/'40'
 
Sebastiano Carta, caduta libera, 1957


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Sebastiano Carta,fuga di passaggio, 1970

IL FONDO DEL CRATERE

Odora di zolfo e d’acido
ogni molle odissea di lava.

Su uno specchio
lentissimo di rosso
ferree pinne galleggiano.

Dolcissime leggende sul cristallo
adombrato di purpureo sonno
ove il deserto si fa più raro
e le piriti signoreggiano il cristallo.


 
     

HUNDERTWASSER O DELLA LINEA CURVA

"La linea retta fa ammalare l'uomo perché non esiste in natura e lo espone, di conseguenza,
a uno stimolo estraneo all'organismo.
Questa linea è una minaccia creata dall'uomo stesso.
Vi sono milioni di linee, ma una sola è portatrice
di morte: quella tracciata con la riga".
Friedensreich Hundertwasser 
(Vienna, 15 dicembre 1928 – 19 febbraio 2000)




FRANCO VALENTE, L'ARTISTA CHE HA BATTUTO LA DISABILITA'

«Non ho memoria di quando ho preso coscienza del mio linguaggio spastico... La comprensione altrui era e rimane tuttora una chimera... E' difficile e drammatico convivere con un linguaggio che non mi consente di esprimere le mie potenzialità.»
 

 

Franco Valente, romano, classe 1954, è probabilmente il primo, o uno dei pochissimi disabili affetti da gravi problematiche neuromotorie collegate alla spasticità a operare come pittore, oltre che come intellettuale e studioso della sua stessa disabilità, tanto da laurearsi in lettere e a scrivere, con prefazione del linguista e professore universitarioTullio De Mauro, il saggio "La lingua legata" (Ed. Riuniti).
Un percorso complesso e doloroso, portato avanti tra mille difficoltà a partire dagli anni '70, quando ancora molta strada era da percorrere sulla via della libertà di espressione e della cultura della disabilità, grazie anche agli incoraggiamenti del maestro ed esperto di educazione visiva Enrico Accatino.
Nascono così tra gli anni '70 e gli anni '80 opere sicuramente limitate nel controllo del gesto e della forma, ma non nella capacità di esprimersi concetti e sensazioni. Opere a volte severe (dove il nero predomina). In altri casi, solari, per il rincorrersi di toni verdi, azzurri, rossi, dilavati dall'uso della tempera, della guazza o dell'acquarelo.
Un percorso mai esplorato che lo pone come un pioniere. Anzi, no. Come un artista vero, capace di trasmettere emozioni.

sabato 15 gennaio 2011

LUIGI D'ALESSANDRO, PITTORE.


Con questo quadro Luigi D'Alessandro partecipa alla IX Quadriennale d'Arte di Roma, e il "Paese Sera" nel racconto critico della rassegna lo pone insieme a Burri, Capogrossi, Afro, Tano Festa tra più interessati tra i nuovi autori.
E' il 1965, e non ha neanche 40 anni. La sua opera incarna lo spirito del tempo, e pone come oggetto della natura morta i ferri e gli attrezzi di una officina meccanica. Anche lui affascinato dal rapporto uomo/macchina che tanto caratterizzò quel periodo. Un percorso che lo ha visto partire all'inizio degli anni '50 con il pittore pavese Mario De Paoli alla volta di Parigi per poi diplomarsi all'Acadèmie de La Grande Chauniere. E quindi debuttare a Roma a Via Margutta con il supporto critico di Marcello Venturoli.

Ecco, questo quadro rappresenta tutto questo. L'orgoglio, la speranza, la passione, il progetto.
Poi, dopo due mostre e sempre ottime recensioni, gli annuari ne perdono le tracce. 
Un destino comune a molti artisti, perchè la storia nella sua crudezza ignora sempre  pause, drammi umani, crisi creative, o il perdersi dietro alle mille difficoltà della vita. 
Per questo l'opera sta oggi qui, su queste pagine digitali. Scoperta sul retro di una cartolina invito del 1965, che riportava sotto al nome dell'autore la dicitura: L'UOMO, LA MACCHINA, LA FOLLIA. DOVE STIAMO ANDANDO? 
Forse non lo sapremo mai.
Roma, anni '50. D'Alessandro, seduto, Al centro della foto.


 

lunedì 10 gennaio 2011

LA CASA ROSSA DI ROBERTO MELLI. UN QUADRO ESEMPLARE.

"La Casa Rossa", Roberto Melli, 1923. Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma, Sala 25, Valori Plastici.

 

Un piccolo quadro, in parte dimenticato, di valore estetico assoluto, e totalmente inedito per lo stile italiano. Un quadro che i visitatori frettolosi della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma spesso ignorano, ma che preannuncia la pop art e la pittura metafisica di Hopper che, proprio in quegli anni, aveva iniziato negli Stati Uniti la sua ricerca in felice solitudine. Un quadro del quale non era possibile  sino a pochi anni fa ritrovare traccia nel web, e che solo pochi storici dell'arte citano.

 

Al centro dello spazio una casa rossa su una collina che credevo potesse essere una casa del Lungotevere, a Testaccio, dove Melli abitava, e che ho scoperto poi essere Villa Strohl Fern, vista da via Flaminia Vecchia, all'epoca sede di numerosi studi d'artista (da Trombadori a Oppo, da Arturo Martino a Guidi), oggi invisibile per la crescita degli alberi.

La "casa" si staglia su un cielo azzurro, uno di quelli che i romani conosco bene, dipinto penso in estate, con l'aria un po' loffia del pomeriggio.

Il quadro poi si sviluppa con un taglio totalmente inedito e fuori dai tradizionali sistemi compositivi, con una linea diagonale che taglia e divide in due il formato quadrotto.

I fiori e la rete diventano una texture astratta

La prospettiva è totalmente rispettata, ma lo spazio diventa addirittura metafisico. Tutto è immerso nel silenzio. Non ci sono persone. Non c'è nessun compiacimento paesaggistico. Non c'è il narcisismo di De Chirico. Non c'è più neanche lo "stile italico" del novecento classicista che imperava in quegli anni. Anzi, chissà perché, mi viene in mente l'immagine della casa della Signora Bates che sovrastava il motel di Psycho, che ho visto a Los Angeles negli studi della Universal e le pitture di quei pittori americani, che, non avendo altro, riprendevano silos e covoni.

 

Nel 1923, dopo aver attraversato il futurismo con dipinti e sculture di valore fondamentali (la donna con il cappello, una lama nella coscienza), appena due anni dopo la Marcia su Roma, due prima del quadro di Hopper, Melli (1885 -1958) aveva aperto una porta che gli italiani non erano stati in grado di vedere. 

 

Edward Hopper - House by the railroad
Oil on canvas 1925 MoMa New York

La casa di Hopper
La casa di Psycho, 1959 Universal Studio


OIL PAINTING: "Grain Farm" ~ John Rogers Cox, 30s
L'arte non rende il visibile. 
Ma rende visibile ciò che visibile, non è.
Paul Klee.



Coal Tower, 1934 - Max Arthur Cohn,

Ralston Crawford - Vertical Building, 1934


Days of Heaven (Regia di Terrence Malick) 

 
Sir Peter Siddell (1935-2011) House and Rocks (1971)

 
Roberto Melli a sinistra e Renato Guttuso su tetto della casa di Melli a Testaccio

 
Roberto Melli, i tetti di Testaccio dalla terrazza



Roberto Melli - Interno, 1919

 

 Beppe Guzzi, la casa rosa, 1981 
 

"La Casa Rossa", Roberto Melli, 1923. Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma, Sala 25, Valori Plastici.

 

IL TRIONFO DELLA MORTE TRA LE MACERIE, SECONDO GEORGE GROSZ

Acquarello su carta, cm. 25,5X25,5
La Morte si aggira tra le macerie della seconda Guerra Mondiale di una città quasi certamente tedesca, Berlino, o forse Dresda, completamente rasa al suolo da 9 kilotoni di TNT sganciati dalle Fortezze Volanti in appena 3 giorni. 
La Morte impugna una bandiera sfilacciata, e senza insegne, ma ride soddisfatta, e avanza nell’acqua per falciare le ultime vite. O irridere ai superstiti.
Questo il tema di uno straordinario acquarello di George Grosz (1893-1959), del tutto inedito, proveniente dal fallimento della Galleria Magnolia di Amsterdam, passato in asta anni fa e ora in una collezione privata. Un quadro realizzato presumibilmente tra il 1947 e il 1949, vista la forte somiglianza della bandiera con quella che ugualmente sventola, lacera, nel celebre “La danza dell’uomo grigio” o con le suggestioni di altre opere come “Chain, Or, Hitler In Hell” e “Il Sopravvissuto” del 1944, “The Pit” e “Peace” del 1946, “L’Uomo Che Grida Ballando” del 1949. Quasi certamente una elaborazione del celebre  Wawing the Flag, 1947-48 conservato allo Smitshonian Museum. Un appunto personale, lasciato sul foglio per fermare lo sdegno e il dolore. La sua forza è infatti tutta nell’immediatezza del tratto, nella velocità di esecuzione, e nella capacità di unire la modernità del disegno con una simbologia arcaica e mistica che riporta al medioevo e ai “Trionfi della Morte” che popolano le pareti delle chiese, da Palermo all’estremo Nord dell’Europa, dal medioevo al Rinascimento, come i due affreschi qui allegati testimoniano. 
Un piccolo quadro, esemplare, che ci riporta indietro nel tempo, e che ci incatena, per sempre, alle nostre responsabilità.
 
“Chain, Or, Hitler In Hell”, 1944
Il Sopravvissuto, 1944

La danza dell’uomo grigioùù


IL TRIONFO DELLA MORTE

domenica 9 gennaio 2011

FONTE GAIA DI GIOVANNI NICOLINI. L'OPERA DIMENTICATA E FERITA, CHE CHIUDE UN'EPOCA.

Il bambino ha zampette di capra e scruta i passanti con aspetto luciferino, anche se dal suo viso emerge un ghigno divertito che non riesce a dissimulare. Sotto di lui, padre Sileno e mamma Ninfa lo sorreggono a mo’ di ponte, ebbri di felicità per quel dono forse inatteso. 
Lei, con gli occhi chiusi, assapora questo breve istante. Anzi, sembra pensare e rivedere qualcosa successo molto tempo prima, che la riempie di gioia in un moto di intimo pudore. 
Il padre satiro, invece, incurante di essere metà uomo e metà bestia (la scultura va vista veramente a 360°) è fiero di sé ed esprime il massimo della potenza virile. E tutti e due, infine, si fondono con la natura.



Questo straordinario gruppo scultoreo, arricchito alla base da una fontana di conigli (da cui prende il nome di “Fonte Gaia”) accoglie i visitatori al Giardino del Lago, a Villa Borghese. E’ opera dello scultore, molto celebre al tempo, Giovanni Nicolini (1872 -1956) ed è, senz’ombra di dubbio, una delle più belle sculture presenti a Roma, per la maestria dell’esecuzione e per la forza della composizione, che racchiude le tre figure in un quadrato perfetto, ricco di forza e di tensione.
Un’opera che non ha la fama internazionale che in realtà meriterebbe, probabilmente anche a causa della tarda data di esecuzione (1928), che pone tuttavia il gruppo come l’opera che chiude realmente le suggestioni e i riferimenti culturali della cultura liberty. Che termina qui, all’inizio degli anni ’30, e che fa già presagire, sulla ghiaia, il rumore dei passi di marcia dei legionari fascisti. 

P.S. nel dicembre 2011, qualcuno, forse la stessa banda di disperati che un mese prima aveva trafugato la testa del satiro sempre a Villa Borghese ha decapitato di notte il bambino, rubando forse per sempre quel sorriso. 

 è stata poi ritrovata


Il recupero è frutto di un’intensa e costante attività info-investigativa delle Fiamme Gialle del II gruppo, che sono riuscite a circoscrivere e monitorare la zona del presunto occultamento. Quindi l’opera è stata ritrovata con l’aiuto del metal detector nella pineta di Ostia, in località Acque Rosse, prospiciente via dei Pescatori e via Mar dei Coralli, quando era già pronta per essere collocata sul mercato illegale estero. In Italia, infatti, non poteva essere venduta a causa del suo notevole valore, ma soprattutto per la sua notorietà. I ladri, agendo con una sega nella zona posteriore del collo del satirello, avevano provocato il cedimento di una saldatura originale nella zona anteriore del collo e determinato il distacco, lasciando un brandello di metallo sollevato. Anche la figura del fauno maschio adulto presenta profondi graffi all’altezza del collo provocati dal tentativo di seghettatura.

Giovanni Nicolini, scultore autoritratto