Me lo ricordo, quando ero bambino,
in via Chiana, a Roma, angolo via Volsinio. Fumava, e parlava praticamente da
solo con un lungo cappotto scuro e i capelli bianchi e lunghi mossi dal vento e
uno strano berretto da un lato. Poi una volta finito di fumare, continuando a
parlare con mio padre, che lo conosceva da sempre, iniziò con la cicca a disegnare
sul muro di granito del palazzo una faccia stralunata che a me sembrava quella
di un nano con un cilindro.
Poi prese da terra un pezzetto di
qualcosa e disegnò in alto una stella cometa, scrisse una cosa tipo
“FIUUUUUUU!”, e mi sorrise, come se mi avesse regalato l’intera parate.
Era quasi Natale e quello era un Re
Mago. E quel giorno gli scappava di disegnare, a Seb, come in trance.
Ecco. Ci sono persone a cui le
cose vengono tutte facili. Altre che, per destino, o forse per scelta
in/consapevole, sono costrette a lottare tutta la vita per vedere riconosciuto
non solo il proprio valore e il proprio talento, ma anche la propria storia.
Come Sebastiano Carta pittore e poeta, tra una sigaretta, un bicchiere
condiviso con gli amici, e mille disegni lasciati sulla via. E in questo la memoria
digitale spesso aiuta, perché porta a ritrovare frammenti dispersi, che
magicamente possono ricomporsi e ridare vita a un volto, a un quadro, a una
storia.
Forse anche questo è stato il suo
destino, un futurista della prima ora, uno di quelli che Marinetti chiamò "...uno dei miei ascari più audaci...",
troppo spesso ignorato nelle grandi rassegne dedicate al movimento. E ancora
molto tempo ci vorrà prima di rivedere ristampate le sue fantasmagoriche
composizioni poetiche proseguite sino agli anni ’70 che lo pongono tra i
precursori della poesia visiva in Italia. E di ritrovare, e storicizzare, molte
delle sue opere dei primi anni, oggi di difficile reperibilità, dove sperimenta
ad esempio la macchina da scrivere per realizzare immagini in un percorso
visivo molto vicino a quello di Bruno Munari.
Nato il 4 Marzo 1913 a Priolo, in
Sicilia, arriva a Roma dopo il trasferimento del padre, poliziotto, per
stabilirsi al quartiere Trieste. Figurarsi come il padre come la prese quando
seppe che suo figlio si era messo in testa di voler fare il poeta e il pittore.
Tanto che, ventenne, va a far leggere le sue rime a Filippo Tommaso Marinetti
che apprezza il suo scritto “Sistemazione
Fisica” e lo coinvolge subito nel gruppo romano “…la poesia Parolibera, sintetica, astratta, frenetica, al Punto da
sembrare disperata…”
Già nel 1933 partecipa alle Parole Libere, legandosi a Carlo Belli e
ai fratelli Bragaglia per poi entrare negli anni '40 nel Gruppo comasco
futurista dei Valori Primordiali. NeI
1944, a Via Lariana, la casa di famiglia, fonda la “Casa Rossa”, gruppo di
cultura antiborghese soprannominato l’Antisalotto
Bellonci, che vede transitare Stradone, Ungaretti, Dorazio, Zavattini,
Guttuso, legandosi poi di amicizia con Roberto Melli, Mazzullo e Antonio
Marasco che, come lui, hanno scelto Roma come nuova città di elezione.
E con Guttuso, che è suo
conterraneo e ha appena due anni più di lui, che è tornato a Roma dopo il
settembre del 1944 superando a piedi la Linea Gotica, per attivare stremati e
affamati a casa della madre di Sebastiano al quartiere con i pantaloni
rattoppati, accolti come eroi.
Da quel momento la sua figura
diventa sempre più autonoma e la sua pittura sempre più personale. Egli vaga
nei suoi pensieri, sfiorando il surrealismo, esplorando gli angoli più
misteriosi dell’espressionismo. E’ uno dei quegli autori che, quando conosci le
sue opere, le riconosci sempre. E le riconosci subito. Dipinge e disegna su
qualsiasi foglio con qualsiasi materiale e con qualsiasi tecnica arricchendo la
composizione con parole e poesie. Tante volte, troppe volte, anche con feltro e
pennarelli, tecnica che esposta alla luce, oggi svanisce, come il suo ricordo,
azzerando molta della sua ultima produzione. Regalava i suoi disegni con la
stessa facilità con la quale poteva arrabbiarsi se una cosa non gli andava a
genio. Lo hanno anche truffato, come mi ha raccontato la figlia, quando
vendette le sue opere in blocco a un gallerista, che non lo pagò mai e che
probabilmente le ha svendute e disperse.
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Autoritratto |
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Sebastiano Carta in un ritratto di Gianni Berengo Gardin |
Ha partecipato a due Quadriennali, sviluppando una
pittura diversa da tutti i suoi amici e compagni di viaggio alcuni spariti,
come Guttuso, ormai troppo glamour per frequentarlo ancora.
Trova un impiego alla Banca d’Italia, che gli
garantisce stabilità e inizia a esplorare sin dagli anni '50 un astrattismo
concettuale che lo porta più vicino alla Bauhaus che alla pittura italiana,
spesso sconfinando in area espressionista. Con un approccio al lavoro quasi da
street artist ante litteram, tanto che lo scrittore Cesare Zavattini scriverà: "…quando stende davanti ai suoi amici i
grandi fogli di pittura, si ricomincia ad amarlo e a stimarlo. Ci aggiriamo
attorno a questi fogli, come alle figure che i pittori ambulanti fanno sui
marciapiedi…”. Un percorso da cavaliere solitario, in seguito aggravato da
difficoltà economiche.
La figlia Elisabetta, nel bel libro di memorie “Cuore di Scimmia”, scritto come per
molti figli d’artista, per indagare ed esorcizzare il suo rapporto con il padre,
così scrive: “Da piccola credevo che Sebastiano fosse un
orco, come quello delle favole, che mi era toccato per padre. La cosa non mi
dava molto pensiero, sia perché ero così abituata all’atmosfera delle favole da
confonderle con la realtà, sia perché gli orchi non erano poi così cattivi, tant’è
vero che spesso si redimevano, come quello de La bella e la bestia o come il
rospo che poi diventava principe. Pensavo che tutti ce la potessero fare a
vincere la propria natura oscura, e quindi anche a lui davo una possibilità…”.
Colpito da ictus alla Montagnola
dove abitava con la moglie nel 1973, e dove veniva chiamato “er pittore”, morirà tre giorni dopo a
Roma, ad appena 60 anni.