Ogni due settimane il responsabile della conservazione delle collezioni del Museo del Novecento di Milano (in gergo: registrar) gonfia un palloncino nuovo e lo rimette sotto la teca al posto di quello sgonfio. Solo così può rinascere Corpo d'aria n.23 di Piero Manzoni, scultura pneumatica e provocatoria che l’artista realizzò tra il 1959 e il 1960 in 45 multipli. A lungo si discusse se era giusto rigonfiarlo se invece occorreva lasciare il palloncino originale, ormai ridotto a vermiciattolo incancrenito. Tema che ha toccato anche le sculture e le installazioni di Pino Pascali o il cretto di Burri a Gibellina, e che oggi coinvolge quasi tutte le opere di una grande artista internazionale come Eva Hesse (Düsseldorf, 1936 – New York, 1970). Un’anticipatrice, che non solo seppe innovare il linguaggio visivo, ma che per la sua ricerca utilizzò materiali al tempo del tutto inediti, e dei quali ignorava quale sarebbe stato l’evoluzione o il processo di invecchiamento nel tempo. Ma non era poi così importante, visto che lei stessa diceva: “la vita non dura, l’arte non dura.”
Prendete
ad esempio questa opera, che sembra essere stata prodotta con spago o lana, ma
che in realtà utilizza fibra di vetro. Ogni filo era stato infatti immerso nel
lattice e, subito dopo, appeso a ganci ricavati da normali grucce per abiti e
lasciato ad asciugare. Si genera così una struttura che sembra ricollegarsi
alla natura, ma che in realtà nasce dalla tecnologia. Un’opera fascinosa quanto
incredibilmente fragile, tanto che per riuscire a salvarla il Milwaukee Art
Museum ha dovuto progettare una struttura parallela in grado di sostenerla,
impedendo di sfaldarsi. “Right After” Subito dopo, opera spesso avvicinata al
movimento minimalista e post-minimalista, nata nel 1969 in collaborazione con l'artista Doug John,
suo compagno, è di fatto un testamento spirituale, quasi un processo animistico
che preannuncia la nascita della fiber-art.
La realizzò quando aveva 33 anni e gli era stato diagnosticato un tumore al cervello che l’avrebbe portata via nel giro di pochi mesi, provocandogli dolori lancinanti. E il dolore, a dispetto delle sue foto quasi sempre sorridenti, che mi hanno colpito per la freschezza e contemporaneità, ha spesso intrecciato la sua esistenza.
Eva Hesse nacque in una famiglia ebrea ad Amburgo, in Germania, l'11 gennaio 1936, ma la sua infanzia fu segnata da eventi traumatici. Nel 1938, a causa delle crescenti persecuzioni, la famiglia Hesse fu costretta a fuggire dalla Germania. Eva ed Helen, sua sorella maggiore, furono mandate in Olanda con un Kindertransport, un'operazione di salvataggio che portò migliaia di bambini ebrei in luoghi più sicuri. Poco dopo, anche i loro genitori riuscirono a fuggire e la famiglia si riunì temporaneamente a Londra.
Nel 1939 emigrarono
negli Stati Uniti, stabilendosi a New York. Non fu facile adattarsi. Poco dopo
il loro arrivo i genitori di Eva si separarono, e nel 1944 la madre si suicidò.
Eventi che influenzarono profondamente la vita e l'arte di Eva. Nonostante le
difficoltà. Quella ragazzina, ostinata e sensibile, riuscì a trovare un
ambiente stimolante, dove poté sviluppare il suo talento artistico e ricevere
una formazione adeguata. Studia alla School of Industrial Art, al Pratt
Institute e successivamente alla Yale University, dove si laurea nel
1959 sotto la guida di Josef Albers già docente al Bauhaus. La storia
dell'infanzia di Eva Hesse resta però una testimonianza della resilienza umana
di fronte alle avversità. La sua esperienza di fuga, perdita e ricostruzione in
un nuovo paese ha influenzato profondamente la sua capacità artistica e la sua
visione del mondo, elementi che si riflettono chiaramente nel suo lavoro
innovativo ed emotivamente carico.
Le
sue prime opere riflettono un'influenza surrealista e astratta, ma è negli anni
'60 che sviluppa il suo stile distintivo che utilizza materiali non
convenzionali come il latex, la fibra di vetro, la plastica, che conferiscono
alle opere una qualità organica e transitoria. Con un percorso simile a quello
intrapreso da Louise Bourgeois negli stessi anni. Le sue installazioni scultoree esplorano spesso temi collegati
alla femminilità, alla fragilità, in contrasto con il rigore del minimalismo
dominante dell'epoca. Tra le sue opere più celebri ricordiamo "Hang
Up" (1966), "Accession II" (1968) e "Contingent"
(1969), che esemplificano la sua capacità di trasformare materiali industriali
in forme evocative ed empatiche. Nonostante la
sua carriera sia stata tragicamente breve (morirà il 29 maggio 1970) la sua
influenza perdura ancora oggi nell'arte contemporanea. Della sua esistenza
diceva: “Arte
e lavoro, arte e vita sono molto collegati e tutta la mia vita è stata assurda. Non è successo nulla
che non sia stato estremo: salute personale, famiglia, situazione economica...
assurdità è la parola chiave.”
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