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"La penna è il bisturi dell'arte del disegno, è uno strumento difficile
come un violino. Io lavoro con la più sottile del mondo, made in England, su
carta piccolo cavallo che faccio arrivare dalla Germania, con inchiostro di
China che viene dal Giappone. Arroto la delicatissima penna sulla pietra
indiana. I passaggi dal bianco al nero, la modellazione delle carni, dei veli,
dei capelli, dell'acqua, delle nubi, della luce e del fuoco, l'ottengo con
finissima tessitura di tratti che elaboro con la penna riversata”.
Alberto Martini
A Milano, tra gli anni ’20 e gli
anni ’40, dopo il futurismo, e dopo il ribaltamento ideologico di Chiattone e
Sant’Elia, l’ambiente artistico risulta di fatto congelato in un campionato a 4
che non ammette divagazioni. Primi in classifica, per tifosi, campagna acquisti
e compagine, i Novecentisti protetti dalla
Sarfatti (Mario Sironi, Achille Funi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci, Emilio
Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi). A seguire i Primitivi-Chiaristi generati dal pensiero del giovane Edoardo
Persico (che in gergo calcistico potremmo definire i “catenacciari”). E infine,
sempre a rischio retrocessione, gli Astrattisti
della galleria “Il Milione", e quelli del gruppo di "Corrente" guidato da Treccani e Birolli.
Il Surrealismo e - peggio che mai - l'Espressionismo sono di fatto relegati a semplice curiosità
etnografica. Agli italiani non piacciono le facce distorte, i colori violenti,
e “…quei segnacci selvaggi sul linoleum
tanto cari ai nostri fratelli crucchi…”. Così anche la grafica viene tenuta
in scarsa considerazione.
Mentre il realismo magico di Massimo Bontempelli, viene di fatto sopportato, considerato
solo una buona lettura di svago prima di mettersi la camicia nera per andare al
Sabato Fascista. Siamo un popolo di grandi realizzatori, appunto “reali”, e “…non abbiamo certo bisogno di arte pensata
da palle mosce francesi. O peggio, da checche…”
Un surrealista, in Italia, però c’era veramente.
E lo sarebbe rimasto per sempre,
anche se aveva rifiutato l’invito di Andrè Breton, che molto lo stimava, ad entrare
in maniera militante nel movimento e a divenire controfirmatario del suo Manifesto (1924).
Stiamo parlando di Alberto Martini,
un artista anomalo, rientrato a Milano dopo alcuni anni di soggiorno parigino e
dopo un percorso formativo realmente di respiro europeo.
Nato a Oderzo, in provincia di
Treviso nel 1876, da famiglia nobile, poco più che ventenne va a Monaco di
Baviera, nel 1898, per studiare i maestri tedeschi dell’incisione. Autore
ostile all’impressionismo e al naturalismo (genere frequentato dal padre,
pittore e professore di disegno) Martini ha un'indole solitaria: si ispira agli
artisti tedeschi dell’incisione e del disegno, dei quali apprezza il rigore e
la graffiante ironia, ma al tempo stesso approfondisce la conoscenza del mondo
inglese di Blake e Fuseli e della grafica francese (Doré, Granville, Bresdin,
Rops) che scopre nel lungo soggiorno a Parigi, dove si guadagna da vivere
collaborando, spesso in maniera anonima, con riviste di satira e costume.
La sua prima formazione è legata
soprattutto al mondo del disegno, ma l'approccio alla pittura è precoce con
risultati di altissimo livello fin dalle opere giovanili, tra le quali quelle
esposte nella Sala del Sogno alla Biennale di Venezia del 1907.
Considerato uno dei più grandi
illustratori europei, e più conosciuto all’estero che in patria, ha realizzato
tavole celebri nell'interpretazione grafica di opere letterarie come per i Racconti di Edgar Allan Poe (esposte a
Londra nel 1914), centinaia di disegni per la Divina Commedia (dal 1901 al 1944), lavori per la poesia simbolista
francese di Mallarmé, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Gerard de Nerval, e per gli
shakespeariani Macbeth e Amleto.
Eccezionali, per qualità e dimensioni, soprattutto le incisioni dei cicli sul
tema dell’amore e della morte, quali I
Misteri, Le Fantasie Bizzarre e Crudeli, I Miti, di fatto il suo testamento
artistico.
Martini muore a Milano nel 1954, nel
silenzio che la critica aveva steso sui suoi ultimi lavori.
Gli era rimasto accanto soltanto
un gruppo di collezionisti di ex libris
(nicchia creativa della quale è stato indiscusso maestro) riunitisi in un’Associazione
costituitasi nel 1937.
Praticamente impossibile trovare
in rete una sua foto, in una sorta di damnatio memoriae.
Perché Alberto Martini è grande?
Perché è sempre sorprendente, e mai scontato. E basta avere tra le mani una sua
incisione per capirlo, senza tante metafore.
Perché è l’unico in Italia che
abbia tracciato, e poi percorso, soprattutto in quegli anni, questa strada, al
di là del reale, tra sogno e incubo. Tanto da essere stato giustamente identificato
come “maestro dell’arte onirica”,
ponendosi in linea diretta con Dalì e Bunuel.
Con uno stile immediatamente riconoscibile.
Con una fantasia prorompente, che
ancora oggi sorprende gli spettatori. Come mi accorsi io stesso anni fa, in una
mostra sull’arte fantastica curata dalla Fondazione Mazzotta, a Milano, vedendo
le sue opere divenire il luogo dove più di tutti si veniva a creare la fila.
Con la sensazione, ogni volta, per chi vi si trovasse davanti, di aver scoperto
un artista ancora tutto da capire.
E se
Martini è stato rivalutato in questo ultimo ventennio, come giustamente fanno
notare i collezionisti di ex-libris, rimangono ancora del tutto dimenticati
alcuni artisti a lui vicini per frequentazioni e visioni. Sto parlando di Enrico
Vannuccini, Attilio Cavallini, Michel Fingesten, del primo Franco Rognoni.
Artisti,
vedrete, dei quali parleremo volentieri.