Non credo che
l’inferno esista. Ma se l’avessero inventato, avrebbe sicuramente avuto una
succursale in Birmania, tra il 1941 e il 1943, tra Mounbnein e Martaban.
E’ lì, nello scenario evocato dal film “Il ponte sul fiume Kway” (che già raccontava una realtà molto edulcorata) che il progetto di sostenere il grande esercito nipponico e la sua espansione in Thailandia spinge a costruire la famigerata ferrovia di Burma, all’interno di una foresta sino ad allora impenetrabile.
Durante la sua costruzione, per incidenti, repressioni, malattie e stenti, moriranno 13.000 prigionieri di guerra del Commonwealth, olandesi, inglesi e americani (i loro corpi sono sepolti lungo il tracciato della ferrovia) e quasi 100.000 civili, manodopera forzata deportata dalla Malesia e dalle Indie orientali.
Tale sarebbe stata la fretta del Giappone durante le fasi finali del conflitto che negli ultimi 3 mesi gli operai sarebbero stati costretti a lavorare a cicli di 62 ore su 72, con metà della già scarsa razione giornaliera (cit. Sangue, ferro e oro. Come le ferrovie hanno cambiato il mondo, Christian Wolmar). Molti degli scampati ebbero gravissimi problemi di re-inserimento. Molti furono i suicidi presso gli ospedali che li accolsero alla fine del conflitto.
E’ lì, nello scenario evocato dal film “Il ponte sul fiume Kway” (che già raccontava una realtà molto edulcorata) che il progetto di sostenere il grande esercito nipponico e la sua espansione in Thailandia spinge a costruire la famigerata ferrovia di Burma, all’interno di una foresta sino ad allora impenetrabile.
Durante la sua costruzione, per incidenti, repressioni, malattie e stenti, moriranno 13.000 prigionieri di guerra del Commonwealth, olandesi, inglesi e americani (i loro corpi sono sepolti lungo il tracciato della ferrovia) e quasi 100.000 civili, manodopera forzata deportata dalla Malesia e dalle Indie orientali.
Tale sarebbe stata la fretta del Giappone durante le fasi finali del conflitto che negli ultimi 3 mesi gli operai sarebbero stati costretti a lavorare a cicli di 62 ore su 72, con metà della già scarsa razione giornaliera (cit. Sangue, ferro e oro. Come le ferrovie hanno cambiato il mondo, Christian Wolmar). Molti degli scampati ebbero gravissimi problemi di re-inserimento. Molti furono i suicidi presso gli ospedali che li accolsero alla fine del conflitto.
Tra i sopravvissuti di
quell’olocausto, anche il ventinovenne Wim De Haan (1913 - 1967), olandese di
nascita, ma con interessi di famiglia in Indonesia e nel sud est asiatico.
Wim non riesce a dimenticare. Cercherà però di farlo, per tutta
la vita, provando a rielaborare e a esorcizzare la sua tragica esperienza con
linguaggi per lui del tutto nuovi.
Si laurea in psicologia. Inizia a dipingere,
trasformando la sua passione giovanile in scelta di vita. Decide di tornare in
Europa.
Le sue opere, che sembrano spaziare tra l’espressionismo astratto e l’informale, hanno forti influenze e punti di contatto anche del mondo surreale di Mirò, spesso riletto in
chiave polimaterica. Un mondo che Wim analizza in parallelo, senza mai fermarsi al semplice effetto visivo, o innamorarsi di una ironia.
Ciò che vuole esplorare, al di là
della scelta formale, è il rapporto tra bene e male. La contraddizione tra
disperazione e speranza, trasmutando i ricordi in sogni e in forme e colori.
Ecco, ogni opera diventa così un racconto. Una lettera spedita nel passato per
non dimenticare, per liberarsi dai propri incubi.
Un percoso di liberazione che miscela Freud e Calvinismo, che pone la ricerca artistica come strumento, e non come fine.
Un percoso di liberazione che miscela Freud e Calvinismo, che pone la ricerca artistica come strumento, e non come fine.
E’ un percorso che punta a rivivere a verbalizzare anche
per scritto le proprie esperienze, dando vita a una parallela analisi
letteraria, psicologica e artistica di ogni opera (scelta che emerge sin dal
titolo che egli le assegna) assolutamente unica nel panorama dell’arte astratta
del ‘900. E che rende la sua pittura molto diversa da qualsiasi altra e
generica composizione astratta.