Gli Outsiders sono perdenti per definizione.
Non scelgono
mai i luoghi e le date giuste per nascere, creare, amare, morire. Vivono in
mondi paralleli.
E hanno
sempre l’indirizzo sbagliato.
OUTSIDERS. I COLORI DELL’OMBRA.
Mi piace
ridare vita e dignità alle cose. Sono un cercatore compulsivo, che
viaggia molto e non ha timore ad aggirarsi in luoghi che renderebbero eleganti
i peggiori bar di Caracas. E tra le cose che devo sottrarre all’oblio le foto assumono
un ruolo importante. Quelle che gli anglosassoni chiamano snapshot, istantanee senza autore: sposini, bambini imbronciati, megere, gruppi di famiglia, persone
che ti guardano sedute davanti a una tavola imbandita, chissà dove. Sono tutti morti.
Quando stringo però queste foto
tra lemani ho la sensazione di poter ridare una memoria che, senza un
testimone, senza me, non esisterebbe più. Una missione, che mi porta a credere
di possedere io solo, sulla Terra, quell'immagine. Le osservo. Cerco di
scoprire le relazioni e le connessioni che tengono uniti i miei personaggi in
quel determinato spazio, per quella frazione di istante. Mi soffermo, come
Amelie, sui dettagli in secondo piano, sugli oggetti della credenza, sulla data
del calendario. E mi piace quando uno di loro, fra tanti volti, sembra volermi guardare
dritto negli occhi, come nella sequenza finale di Shining.
Ma questo
è solo l’inizio. Perché, oltre che di immagini, sono un divoratore bulimico di
storie, retaggio di un’antica formazione da sceneggiatore. E mi piace salvare
la creatività dispersa, quella che non è mai venuta alla luce.
Acquisto
disegni, bozzetti su carta, progetti architettonici, più raramente quadri e
sculture. Mi piacciono soprattutto le idee colte nel momento iniziale, ma anche
le opere non firmate, che adoro studiare, decodificare, condividere, come un
archeologo.
E mi piace
scoprire cosa si nasconda dietro la superficie. Perché l’arte è solo un grumo
di pensiero tenuto insieme dal colore, dalla grafite, da una forma.
L’ho
scoperto da bambino, lavorando nello studio del mio babbo, Enrico Accatino,
artista e teorico dell’educazione artistica, aiutandolo a stendere le tele, a
preparare pigmenti, mescolando il gesso, mentre la polvere volteggiava
lentamente nei raggi di sole che filtravano dalle grandi finestre e si sentiva
fuori attutito, il rumore del traffico.
Io detestavo
quello studio, perché mi teneva lì mentre sarei rimasto a casa a vedere la
televisione o sarei andato a giocare a pallone a Villa Ada, perché è vero che
ero una pippa, ma a me non bastava mai.
Grazie a quelle
ore di tedio ho però capito molte cose.
Ad
esempio, che l’amore per l’arte è un’eredità maledettamente ingombrante. E se
la accetti, non ti lascia più, anche se vorresti mollare tutto.
E vi giuro
che ci ho provato.
Ho
compreso, poi, che le opere sono sempre
influenzate dalla vita.
È
inevitabile. Perché
anche gli artisti, come ognuno di noi, proiettano nelle loro creazioni sogni
desideri e paure. Diventano maturi, amano, invecchiano, magari male. Così, se
la biografia produttiva di un autore si ferma, c’è sempre un perché, anche se i
testi non lo raccontano se non sei uno dei Top 100, intendo.
E io,
invece, lo voglio sapere.
Qualcuno è
stato piegato da difficoltà e malattie, qualcuno ha perso l’amore, o lo ha
inseguito per una vita senza raggiungerlo. Qualcuno ha combattuto battaglie
perse in partenza, qualcun è morto proprio quando era riuscito a raggiungere il
successo, dopo anni vissuti nell’ombra e magari, come Pino Pascali, sfrecciava
felice su una moto nel caldo dell’agosto romano mentre stava per essere
celebrato come il genio del momento.
Le opere sono sempre figlie di queste storie, così diverse tra loro.
Le opere sono sempre figlie di queste storie, così diverse tra loro.
Anche se poi
esiste una totale rimozione di fronte a fenomeni come pazzia, morte, decadenza
fisica, che copriamo con perifrasi insignificanti: “…dopo lunga malattia”, “disagi psichici”, “…per un malore.”
Ho capito,
infine, che non ha senso incasellare la storia dell’arte visiva in semplici
categorie elementari: “Alto” e “Basso”. I “Maestri” e gli “Altri” (i
minori). A cui seguono, per distacco, i “Non-Artisti”
(illustratori, commercial art, comic art…), le “Curiosità” (performing art, street art…) e i “Matti”. Definizione che comprende la sottospecie “Casi Umani”, ottimo materiale per
fiction. Eppure, conosco opere mediocri di grandi artisti, e magari opere
pazzesche di sconosciuti che hanno avuto per destino la facoltà di lasciare -
anche in una sola realizzazione - un segno indelebile, anticipando mode e
tendenze, dando forma e identità al proprio tempo.
Ecco.
Questo è il senso di Outsider.
Racconti che avrei voluto ascoltare, narrati come avrei voluto sentire, che nessuno mi aveva mai raccontato.
Racconti che avrei voluto ascoltare, narrati come avrei voluto sentire, che nessuno mi aveva mai raccontato.
Una
partitura di immagini e parole scelte con sincerità, che si prefigge di accendere
la luce in zone rimaste all’oscuro, e di recuperare emozioni, colori e schegge
di creatività emerse nella cultura visiva del ‘900. E storie che trovo sia
giusto condividere.
Non è
però, a scanso di equivoci, una storia dell’arte alternativa. Non sarei titolato a farlo. E’ un atto
dovuto, che nasce dalla volontà di ridare dignità e memoria a eventi o a
personaggi che ho incontrato per strada, quasi sempre in maniera casuale, che
non conoscevo, che altri potrebbero ignorare, che ho pensato valesse la pena condividere. Secondo me, grandi artisti, la maggior
parte dei quali, dimenticati. O non conosciuti nei loro aspetti più intimi e
quotidiani.
Outsider
perché la vita, senza troppi giri di parole, li ha presi a calci in culo. Che
hanno raggiunto il successo, ma che poi non hanno saputo mantenerlo, senza risorse,
senza qualcuno che lottasse per loro, o dopo di loro, per mantenerne vivo il
ricordo o promuoverne l’opera.
Outsider perché
hanno dovuto condividere l’arte con la malattia.
Che,
magari, hanno avuto la disgrazia di nascere donne anziché uomini, in anni
ancora acerbi. O nati in nazioni sfigate, in periodi difficili, visto che è
meglio vivere a Saint Tropez negli anni ‘60 che in terra di occupazioni,
accusati di essere ebrei, froci, zoccole, comunisti, fascisti, imperialisti.
Outsider perché
diversi, in anticipo sui tempi, bollati come pazzi, alieni, stravaganti,
conosciuti solo da storici dell’arte e collezionisti, e mai dal grande
pubblico, a cui vengono costantemente negati.
Outsider perché
hanno rinunciato a lottare, o hanno trascurato il mercato per proseguire, in
solitudine, la propria ricerca, sino a svanire.
Outsider
infine, perché non sono riusciti a sopravvivere al conformismo, alle guerre che
hanno sconvolto il ‘900, alle persecuzioni razziali, culturali o politiche, ai
pogrom, alle uccisioni selettive e infine ai disastri delle droghe e agli
eccessi della beat generation.
Dove li ho
scoperti?
Li ho
trovati soffermandomi nelle pareti meno nobili dei musei - quelle vicino al
bagno o all’ascensore - fotografando la targhetta per andarmeli a studiare,
poi, con calma.
Li ho
trovati acquistando cataloghi d’epoca su una bancarella. Nelle aste di secondo
rango, le uniche che riserbano ancora sorprese. Colpito dalla forza di immagini
mai viste, che ti compaiono mentre stai googlando in rete senza meta. Quella
che Daverio chiama “macchina fantastica” …perché contiene già rimandi e parallelismi. Sia nella strada diritta…
che in quella dell’errore. Ovvero, quando internet salta di palo in frasca e ti
apre strade altrimenti inimmaginabili…
Li ho trovati, infine, cercando di dare una storia e un volto ai folgorati che popolavano Parigi, Berlino e San Pietroburgo tra gli anni ’20 e ’30, agli studenti della Bahaus, che ho provato a rintracciare, ai pittori degenerati sbeffeggiati nella mostra Entertatre Kunst voluta da Hitler per deridere l’arte moderna, che andrebbero citati e omaggiati uno ad uno, ogni settimana.
Perché gli
outsider sono straordinari perdenti, e li riconosci al primo sguardo. Sono perdenti. Non
scelgono mai i luoghi e le date giuste per nascere, creare, amare, morire.
Vivono in mondi paralleli. E hanno sempre l’indirizzo sbagliato.
Tutte
queste storie mi crescevano dentro.
Ho
iniziato prima a scrivere in maniera anonima una cinquantina di voci di Wikipedia, perché soffrivo di questo
silenzio e del fatto che molti autori non avessero neanche un riferimento in
italiano. Ho poi raccolto questo materiale nel blog che state leggendo, “Il Museo Immaginario”, evidente omaggio
all’omonimo libro di André Malraux, poi affiancato da una pagina social di
successo, e infine da una rubrica di ArteeDossier
che ha come focus la rivalutazione di artisti poco noti del ‘900.
Ed è sulla
figura del padre, con il con il quale ognuno prima o poi deve sempre fare i
conti - se sulla tua strada incontri
Buddha, uccidilo - che ho voluto chiudere questo primo viaggio,
dedicandogli l’ultimo capitolo.
Prima di
lasciarvi, una cosa però la devo dire: la scientificità non è tra i pregi di
questo libro. Certo, ho raccolto le informazioni biografiche cercando di
rispettare ogni dettaglio, verificandone l’attendibilità, a volte, confrontando
le fonti, spesso scarse o disomogenee. Ma i fatti possono essere stati da me
interpretati o riletti in chiave del tutto personale. Cosa della quale mi
assumo la totale responsabilità.
Se avete
qualcosa da opinare, quindi opinate. Ma se anche uno solo di questi autori vi
spingerà a riscoprire mondi, idee, cose, opere o sfide, non avremo perso tempo.
Entrambi.
E anche gli
outsider, i dimenticati, i perdenti, alla fine, potranno dire di avere vinto.
COSA E’ IL PROGETTO OUTSIDERS
Questa è una storia di gente poco importante.
34 storie straordinarie nella loro straordinaria umanità. E’ la storia della creatività dispersa. E in parte ritrovata.
Scoprirete così le vicende della Baronessa Elsa Von
Freutag-Lorighoven, la vera autrice del celebre “orinatoio” di Duchamp, l’opera
cardine del ‘900, donna dalle mille vite e dalla fine tragica. Oppure, potrete
seguire come in un giallo, le tracce di Nicholas Kalmakoff, un maestro russo
riaffiorato al Mercato delle Pulci di Parigi grazie all’impegno di due
collezionisti inventatisi detective. O ripercorrere la vita avventurosa di
Amrita Sher - Gil la prima donna-artista indiana, la cui storia fa impallidire
Frida Khalo, morta a 27 anni per un aborto clandestino. Potrete commuovervi con
il toccante profilo di Dick, il “pittore con le dita a bacchetta”, il cui
autoritratto compare nella cover del libro, così chiamato per la sua grave
disfunzione cardiaca che lo costrinse a vivere chiuso in casa. Potrete tifare
per Arthur Cravan. Il poeta DA che sfidò Jack Johnson, il Campione dei Massimi,
o seguire la toccante parabola di Felix Nussbaum, rimasto quattro anni nascosto
con la moglie in un sottotetto di Bruxelles per sfuggire alle persecuzioni
naziste, prima di essere scoperto e partire verso la morte, con l’ultimo
convoglio.
C’è spazio veramente per tutto e tutti. Dalle vicissitudini del primo
transessuale della storia, raccontate nel film “The danish girl”, a quelle del
miliardario americano Gerald Murhpy, un tipo che ispirò i romanzi di Scott
Fitzgerald, che lanciò la moda dei bagni di mare e della tintarella,
inventandosi di fatto la Costa Azzurra e, incidentalmente, anche la Pop Art.
Tra gli italiani Gino Rossi, un poeta della follia, i cui quadri furono utilizzati per tamponare i pollai delle campagne vicino alla sua casa, o Mario Chiattone, l’architetto che con Sant’Elia disegnò in pochi mesi la città del futuro, prima di annullarsi in una quiete esistenza borghese.
Pochi i nomi noti: Vivian Meier, la bambinaia che faceva la fotografa nel tempo libero, scoperta svuotando una cantina di Chicago dove aveva ammassato migliaia di negativi. Adolf Wolfli, un pedofilo ossessivo divenuto in seguito artista enciclopedico a cui è stata dedicata una grande fondazione. E Pavel Filonov, morto letteralmente di fame durante l’assedio di Leningrado anche perché si ostinato a non voler vendere le proprie opere.
Ultimo ritratto quello di Enrico Accatino, mio padre con il quale avviene un doloroso confronto. Perché se sulla tua strada incontri il Buddha lo devi uccidere.
Tutto qua. Sì, tutto qua. Perché è proprio dalla vita, dalla pietas e dall’attenzione alle piccole cose che il libro offre il meglio di sé, con una veste grafica sontuosa, ricca di foto a colori, e con uno stile disincantato, colloquiale, a volte trasgressivo, che rende facile e immediatamente comprensibile anche il riferimento più colto.
L’arte, per fortuna. ha ancora un mondo di storie da raccontare e di sorprese da offrirci. Basta guardare lì, dove nessuno prima aveva ancora fatto, cercando pagliuzze d’oro nel torrente di un fiume.
Tra gli italiani Gino Rossi, un poeta della follia, i cui quadri furono utilizzati per tamponare i pollai delle campagne vicino alla sua casa, o Mario Chiattone, l’architetto che con Sant’Elia disegnò in pochi mesi la città del futuro, prima di annullarsi in una quiete esistenza borghese.
Pochi i nomi noti: Vivian Meier, la bambinaia che faceva la fotografa nel tempo libero, scoperta svuotando una cantina di Chicago dove aveva ammassato migliaia di negativi. Adolf Wolfli, un pedofilo ossessivo divenuto in seguito artista enciclopedico a cui è stata dedicata una grande fondazione. E Pavel Filonov, morto letteralmente di fame durante l’assedio di Leningrado anche perché si ostinato a non voler vendere le proprie opere.
Ultimo ritratto quello di Enrico Accatino, mio padre con il quale avviene un doloroso confronto. Perché se sulla tua strada incontri il Buddha lo devi uccidere.
Tutto qua. Sì, tutto qua. Perché è proprio dalla vita, dalla pietas e dall’attenzione alle piccole cose che il libro offre il meglio di sé, con una veste grafica sontuosa, ricca di foto a colori, e con uno stile disincantato, colloquiale, a volte trasgressivo, che rende facile e immediatamente comprensibile anche il riferimento più colto.
L’arte, per fortuna. ha ancora un mondo di storie da raccontare e di sorprese da offrirci. Basta guardare lì, dove nessuno prima aveva ancora fatto, cercando pagliuzze d’oro nel torrente di un fiume.