La vita è troppo breve per sprecarla
a realizzare i sogni degli altri.
Oscar Wilde
a realizzare i sogni degli altri.
Oscar Wilde
Roma ha un triste bagaglio di memorie. Doloroso e
dimenticato. Sono i luoghi dove tanti personaggi amati sono passati per poi
fuggire via. Penso al leccio scheggiato sulla Nomentana da Rino Gaetano, morto
perché l’ambulanza che lo trasportava non trovò ospedali disposti ad
accoglierlo. Penso all’angolo tra via Paisiello e via Rossini,
dove si fracassò all’alba la Ford Thunderbird lilla di Fred Buscaglione. All’accigliato Rocco Carbone, uno scrittore e un amico, schiantatosi a terra
col motorino, di notte, senza nessuna apparente motivazione dopo uno
stupidissimo semaforo tra viale Aventino e piazza Albania, dove altri amici
hanno piantato un olivo. Alla terrazza del Biondo Tevere, dove Pasolini cenò
con Pelosi prima di partire alla volta dell’idroscalo. Così, ogni volta che imbocco il sottopassaggio di
corso Italia, faccio un segno di saluto a Pino Pascali che proprio qui,
nell’ultimo week-end d’estate, il 30 agosto 1968, a soli trentatré anni, viene
investito da un’auto mentre è con la sua moto. Per poi morire, undici giorni
dopo, per i postumi delle ferite.
Roma era deserta. Venezia ospitava le sue opere alla
Biennale. New York stava allestendo la sua prima mostra americana e nello
stesso giorno usciva Hey Jude. E mi
immagino il ritardo dei soccorsi, in una città deserta, l’arrivo al policlinico
Umberto I con i portantini che fumano
e chiacchierano, come nei film di Verdone, contornati da malati in pigiama.
Non ho mai saputo se avesse avuto il casco, ma ne
dubito, perché io ad agosto, alla sua età e in quegli anni, sarei andato con la
criniera al vento, e mi sarei sentito immortale.
Il Sessantotto era appena scoppiato, ma la gente
ancora non lo sapeva. Doveva andare forte, con la sua moto, Pino. Era uno
stracazzo di momento: “Trombava come un puma”, mi ha detto un gallerista che lo
conosceva, con un'espressione romanesca che oggi non si usa più.
Ora è un grande Maestro e te lo immagini chissà come. All’epoca era solo un ragazzo bello e felice, penso io, perché era passato da anonimo grafico pubblicitario ad artista conclamato. Un’esplosiva avventura poetica durata appena tre anni, dal 1965 al 1968 che aveva già provocato una vera onda d’urto. Una rivoluzione visiva, subito colta da critica e pubblico, paradossale e imprevedibile, sempre in bilico tra pop e concettuale. Una meteora nella storia dell'arte italiana. Una luce che ancora oggi non cessa di stupire e che prefigura - anzi ha creato - le tendenze dell’attuale arte contemporanea: dai ragni della Louise Bourgeoise alla land art, passando per Anish Kapoor.
Cito dalle note biografiche sul sito della Fondazione
Pino Pascali: “Scultore, scenografo, performer, Pascali coniuga in modo geniale
e creativo forme primarie e mitiche della cultura e della natura mediterranee
(la Grande Madre e Venere, il Mare, la Terra, i Campi, gli attrezzi e i riti
agricoli) con le forme infantili del Gioco e dell’Avventura (animali della
preistoria, dello zoo e del mare, giocattoli di guerra, il mondo di Tarzan e
della giungla, bruchi e bachi, travestimenti, Pulcinella)”.
Ma è stato anche un poeta, Pino, capace di lavorare
con il bianco assoluto. E consiglio a chi non lo conosce di farsi due passi alla
Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, per vedere le sue opere, fortemente
volute dalla direttrice del tempo, Palma Bucarelli, che giacciono, silenziose
come balene spiaggiate. La terra, gli animali (i bachi da seta), i frammenti
anatomici, la ri-costruzione della natura, grandi intuizioni, ancora più grandi
per la loro apparente semplicità. Come il mare, ricostruito in vaschette di
zinco, ognuna delle quali contiene una variazione di tono su tono.
Nasce a Bari il 19 ottobre del 1935. La sua famiglia viene
da Polignano a Mare, il paese di Domenico Modugno. Pino è sepolto lì, nel
piccolo cimitero. A Polignano gli hanno dedicato il Museo d’Arte Contemporanea.
Cresciuto durante la seconda guerra mondiale, trascorre due anni, dal 1940 al
1941, con la famiglia in Albania, dove il padre, funzionario di polizia, è
stato trasferito. La guerra vista da vicino e poi i rottami che lascia alle
spalle rimangono tra le più forti impressioni dell’infanzia. Molti anni dopo
lavorerà sul concetto di paradosso, di stampo dadaista, allestendo macchine da
guerra di grandi dimensioni che sembrano armi per uccidere, ricreate sino al
minimo dettaglio. In realtà, oggetti prodotti con materiali di recupero:
residuati meccanici, tubi idraulici, vecchi carburatori Fiat, rottami,
manopole.
Certo, oggi è molto noto alla critica ed è una star. Ma
forse non è conosciuto quanto dovrebbe dal pubblico e dai più giovani, che
forse non ne comprendono la freschezza, la vicinanza e l’unicità narrativa.
Come a suo tempo Piero Manzoni, si avvicina all’arte povera e alla Pop Art,
senza mai lasciarsene ingoiare. È la sintesi perfetta del celebre aforisma di
Karl Kraus: “Artista è soltanto chi sa fare della soluzione un enigma”.
Ma non è questo l’unico motivo che mi ha spinto a
inserirlo in queste pagine. Ciò che amo è il suo scoprirsi a poco a poco artista,
mentre maneggia fondali per Carosello
e disegna annunci pubblicitari (alcuni dei quali rigettati dai clienti perché
“poco creativi”), mentre inventa scenografie, pupazzi e fumetti.
Dopo l’esperienza albanese con la famiglia, scappa da
ripetente da Bari e s’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove studia
con Toti Scialoja. Inizia poi a lavorare nella comunicazione, creando piccole
cose, logotipi. Ma poi, col successo di Carosello,
anche vere e proprie campagne pubblicitarie, cartoni animati e spot per Algida
e altri prodotti di largo consumo, come Cirio, Arrigoni, Getto Insetticida. Le
icone e i feticci della cultura di massa.
Dalla pubblicità alla televisione il passo è breve.
Realizza sigle televisive rimaste memorabili, come quella del settimanale Tv7 della Rai. Le scenografie per la Biblioteca di Studio Uno del Quartetto
Cetra, addirittura costumi per i balletti delle gemelle Kessler, ma anche le
sirene e i ciclopici oggetti della caverna di Polifemo dello sceneggiato
televisivo tratto dall’Odissea, grande successo per la regia di Franco Rossi.
Farà anche brevi parti d’attore e camei negli spot.
Un’alternanza di alto e basso, di creatività senza pregiudizi che mi piace da
morire e che mi sembra dovrebbe dare nuovo orgoglio a una professione, quella
di “creativo”, sempre più negletta. Professionisti spesso invisibili, a volte
anonimi, così isolati da finire per rinchiudersi in piccole riserve indiane,
dimenticandosi di essere il motore storico di questa nazione. Perché la creatività non si esprime attraverso classi
di merito, gironi, categorie. È un’esigenza che, a volte, diviene professione.
Che può scendere a compromessi (come tutti i ritrattisti, per esempio, Leonardo
e Goya compresi, vissuti come artisti di corte), che può esprimersi o
replicare. Che esiste, perché esiste il mondo.
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